Con questo inno alla magnificenza
di Dio, Dante apre il Paradiso: Dio è luce che "penetra
e risplende" in tutte le creature.
Il "ciel che più de la sua luce prende" è
ovviamente l'Empireo, il cielo più alto, che contiene
tutti i corpi e non è contenuto da nessun altro, il punto
che muove senza essere mosso, il Primo Mobile di Aristotele,
dove "risiede" Dio.
Così, dopo aver presentato la "materia del suo canto",
Dante invoca Apollo, dio della musica e della poesia,
"O buono Apollo, a l'ultimo
lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro."
(vv. 13-15)
affinché lo ispiri nel
suo arduo compito e possa, un giorno, cingersi dell'alloro poetico
per poter essere da esempio a poeti futuri.
È solo dopo l'invocazione che Dante può quindi
cominciare, insieme a Beatrice, l'ascesa verso il divino. Quando
Beatrice rivolge gli occhi al sole, il poeta subito la segue
rendendosi conto che
"Molto è licito
là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercè del loco
fatto per proprio de l'umana spece."
(vv. 55-57)
Ora che è stato purificato da ogni peccato, e che si
trova nel Paradiso Terrestre, il luogo creato da Dio per l'uomo,
Dante partecipa del suo stato di grazia col risultato di poter
fissare il Sole più a lungo di quanto può fare
un comune essere umano. Il poeta vuole quindi evidenziare il
passaggio dall'umile e misera condizione umana in Terra, a quella
sublime della transumanazione, senza, però, tralasciare
che "trasumanar significar per verba/ non si poria"
recuperando il problema che si era posto all'inizio del canto.
Dante concentra ora tutta la sua attenzione sull'armonia celeste:
"Quando la rota che tu
sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l'armonia che temperi e discerni,
parsemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e'l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume."
(vv. 76-84)
In queste terzine sono introdotti
due importantissimi elementi riguardanti la cosmologia medievale:
la "rota" e "l'armonia". Con "rota",
Dante non vuole che indicare il movimento delle sfere celesti
reso eterno da Dio per il continuo tendere di queste ultime
a lui; mentre con "armonia" si riferisce alla musica
dei cieli. Nonostante il pensiero aristotelico rifiutasse la
teoria, di origine pitagorica, secondo la quale il movimento
diverso e sovrapposto delle sfere celesti avrebbe generato un
suono, Dante la utilizza ugualmente forse per aumentare e meglio
rappresentare, attraverso un "essemplo" concreto,
la virtù e l'armonia da lui viste durante il suo viaggio.
Man mano che l'ascesa prosegue, il poeta non può non
meravigliarsi del fatto che le leggi valide sulla Terra non
abbiano valore in Paradiso: egli, infatti, si chiede come faccia
il suo corpo a salire attraverso l'etere. Prontamente Beatrice,
sempre al suo fianco,
"e cominciò: "le
cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l'ordine ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è per motore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d'intelligenza quest'arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa'l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s'accorda
molte fiate a l'intenzion de l'arte,
perch'a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l'impeto primo
l'atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giusto ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
D'impedimento, giù ti fossi assiso,
com'a terra quiete in foco vivo."
(vv. 103-135)
Nel lungo monologo che conclude
il primo canto, Dante affida la descrizione del Paradiso e la
spiegazione del fine del creato a Beatrice, anima beata: il
poeta sembra trovare nella sua fedele accompagnatrice una valida
sostituta al suo poetare umano e immanente. Chi meglio di una
creatura che ha sempre partecipato della grazia divina può
descrivere tale perfezione? Beatrice inizia affermando che tutte
le creature sono in rapporto ordinato fra di loro rendendo,
così, l'universo simile a Dio. In quest'armonia cosmica,
prosegue, gli angeli e gli uomini possono vedere il fine per
cui tutto è stato creato. Ogni cosa, anche gli esseri
razionali, è guidata, dall'istinto donatogli da Dio,
verso un "disegno cosmico prestabilito": si capisce
in questo modo come tutto ciò che è e accada,
succeda e sia solo per volere di Dio. Tuttavia, avviene che
l'uomo, dotato di libero arbitrio, scelga la strada sbagliata
così come, a volte, la materia sembri "sorda"
alla forma. Infine la divina fanciulla invita Dante a non stupirsi
più del suo salire perché, come già spiegato,
è voluto dal Signore.
Anche nel primo canto del Paradiso, come nel primo libro delle
Metamorfosi, quindi, è presentato il contrasto tra condizione
celeste e condizione terrena, fra trascendenza e immanenza,
tra potenza divina e miseria umana: nonostante la tematica sia
la stessa, i due autori hanno voluto tramandare idee diverse.
Infatti, Dante concepisce un cosmo sottoposto alla volontà
di un Dio buono, un Dio cristiano-non dimentichiamo il concetto
di deocentrismo medievale- a cui tutto anela. Non a caso Piccarda
Donati afferma nel terzo canto che:
"E'n la sua volontade è
nostra pace:
ell'è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella cria o che natura face"
Ovidio, al contrario, immaginava
un mondo completamente assoggettato al volere degli dei, che
potevano tranquillamente decidere di far "tremare la terra,
il mare e le stelle" per "annientare il genere umano
nei flutti, rovesciando un diluvio da tutto il cielo".
Leggendo le "Operette Morali", sembra proprio che
Leopardi abbia preso spunto dalle
"Metamorfosi" per comporle: numerosi sono gli elementi
in comune, dalla scelta dei temi all'uso di figure mitologiche.
Dalla visione estremamente positiva
e finalistica del cosmo dantesco, si ritorna, quindi, a vedere
l'universo come qualcosa di infinito, un grande meccanismo che
prosegue il suo corso imperterrito, che all'uomo piaccia o no.
L'universo non ha più finalità ma funziona secondo
leggi necessarie, per cui tutti i fenomeni sono connessi in
una catena di cause ed effetti: l'uomo è solo uno dei
tanti fenomeni che caratterizzano la "catena di produzione
universo".
L'attenzione è focalizzata un'altra volta sull'immagine
della finitezza umana contro la grandiosità e la potenza
del cosmo.
In "Storia del genere umano" del 1824, "si allegorizza
il misero destino d'infelicità e di morte dell'umanità".
Inizialmente, scrive Leopardi,
"
gli uomini compiacendosi
insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la
terra, meravigliandosene sopra modo e riputando l'uno e l'altra
bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza
come di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò
di lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della
loro vita incredibili diletti, crescevano con molto contento,
e con poco meno che opinione della felicità
"
l'infanzia dell'umanità
sembrava soddisfatta della propria condizione sulla terra fino
a quando capisce che i limiti del mondo sono irraggiungibili
e invalicabili:
"
cresceva la loro
mala contentezza di modo che essi non erano ancora usciti dalla
gioventù, che un espresso fastidio dell'esser loro gli
aveva universalmente occupati. E di mano in mano nell'età
virile, e maggiormente in sul declinar degli anni, convertita
la sazietà in odio, alcuni vennero in si fatta disperazione,
che non sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo
avevano avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e
quale in altro modo, se ne privarono
"
A Giove, quindi, come nelle
"Metamorfosi", il compito di migliorare le condizioni
di vita del genere umano che, aspirando alla perfezione, desidera
essere riportato all'età felice delle illusioni cercando
così di spezzare una legge universale. Nonostante Giove
abbia creato il giorno e la notte, le stagioni, la fantasia
e i sogni
"
si ridussero gli
uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede,
il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli
antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano
i parenti e lor amici a piangerlo; e morendo, era celebrato
quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi
con l'estinto
"
Ad una tale reazione alla vita,
gli dei non possono che vendicarsi con il diluvio universale,
e Giove "deliberò valersi di nuove arti a conservare
questo misero genere" assegnandogli "mali veri",
"una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di
altre sventure" assieme alle illusioni che fanno credere
all'uomo di essere meglio di ciò che è. Gli uomini,
allora, illusi dal fatto di poter trovare finalmente la felicità,
sognano di incontrare la Verità: Giove, accondiscendente,
la invia sulla Terra sapendo che:
"
laddove agl'immortali
ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini
interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli
occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo,
non come opera solamente della fortuna, ma come tale che per
niuno accidente e niuno rimedio non la possano campare, né
mai, vivendo, interrompere."
Leopardi approda alla fine
all'idea di pessimismo cosmico al quale tutto il creato è
soggetto: il piacere e la felicità non esistono ma scaturiscono
dal fatto che dopo un grande dolore l'uomo sembra soffrire di
meno. Con la Verità, l'uomo capisce che
"
niuna cosa apparirà
maggiormente vera che la falsità di tutti i beni mortali;
e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa fuorché
dei propri dolori."
Le uniche certezze, quindi,
nell'esistenza umana sono il dolore e la continua ricerca di
una vana felicità. Giove, mosso a pietà, "la
quale negli animi celesti non è mai spenta", inviò
al genere umano Amore che:
"Quando viene in sulla
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili
delle persone più generose e magnanime; e quivi siede
per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile
soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e
di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano,
cosa al tutto nuova al genere umano, piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine."
Amore, però, non rappresenta
che un'altra falsa speranza nella vita degli uomini perché
"
negli animi che
egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il
tempo che egli vi si siede, l'infinita speranza e le belle e
care immaginazioni degli anni teneri."
Rendendo, così, l'uomo
maggiormente consapevole del fatto che il dorato e sereno periodo
della tenera età non potrà tornare mai più.
Non appena Amore, infatti, lascia il posto che aveva preso,
l'illusione si spezza e il dolore si rinnova.
Più ironico, invece, ma sicuramente non meno tragico
è "Il Copernico, Dialogo" che affronta il tema
della "secondaria importanza della Terra, contro quei filosofi
che continuano a dichiarare l'uomo signore dell'universo, nonostante
la rivoluzione copernicana e l'abbandono definitivo della concezione
geocentrica tolemaica." Composta nel 1827, ma pubblicata
nell'edizione postuma del 1845, quest'operetta tratta, con tono
ironico e sprezzante, nuovamente la questione della misera condizione
umana nell'universo. L'operetta si sviluppa in quattro scene
in cui dialogano il Sole, l'ora prima, Copernico e l'ora ultima.
Il dialogo comincia con le lamentele del Sole che
"
stanco di questo
continuo andare attorno per far luce a quattro animaluzzi, che
vivono in su un pugno di fango
"
decide di smettere di girare
attorno alla Terra. Invano l'ora prima tenta di persuaderlo
sostenendo che senza di lui l'umanità intera sarebbe
perduta e "se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come
pezzi di cristallo di roccia."
Il sole, però, sempre sfottente e sarcastico, pensa che
sia
"
ragionevole, che volendo la famiglia scaldarsi,
venga essa intorno del focolare, e non che il focolare vada
intorno alla casa."
Ordina, perciò, di trovare
un filosofo o un poeta che convinca la Terra a smuoversi dal
centro dell'universo dove, ormai, sta già da troppo tempo,
perché, dice, sono stati loro con le loro belle parole
e assurde teorie a far girare il sole per tutto questo tempo
intorno al "granellino di sabbia" che è la
Terra. L'ora ultima allora preleva Copernico, considerato dal
sole "molto a proposito per l'effetto che si ricerca".
Il filosofo spiega, però, che sarà ben difficile
smuovere il pianeta dal trono che occupa perché
"La Terra insino a oggi
ha tenuto la prima sede del mondo, che è a dire il mezzo;
e (come voi sapete) stando ella immobile, e senza altro affare
che guardarsi all'intorno, tutti gli altri globi dell'universo,
non meno i più grandi che i più piccoli, e così
gli splendenti come gli oscuri, le sono iti rotolandosi di sopra
e di sotto e ai lati continuamente; con una fretta, una faccenda,
una furia da sbalordirsi a pensarla."
Copernico sottolinea, inoltre,
la posizione degli uomini "principalissimi tra le creature
terrestri", affermando che si reputano da sempre imperatori
dell'universo, "causa finale delle stelle, dei pianeti
e di tutte le cose." Prosegue poi presentando il futuro
dell'umanità se veramente la terra cominciasse a rivoluzionare
attorno al sole:
"se facciano che ella
corra, che ella si svoltoli, che ella si affanni di continuo,
che eseguisca quel tanto, né più né meno,
che si e fatto di qui addietro dagli altri globi; [
] questo
porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro
maestà umane, dovranno sgomberare il trono, e lasciar
l'impero; restandosene però tuttavia co' loro cenci,
e colle loro miserie, che non sono poche."
Da quest'ultima affermazione
di Copernico sembra emergere direttamente il pensiero pessimista
di Leopardi sul "povero genere umano, divenuto poco più
che nulla".
La "Storia del genere umano" e "Il Copernico,
Dialogo" volevano essere solo due esempi della concezione
profondamente pessimistica dell'uomo nell'universo, non bisogna
quindi dimenticare il "Dialogo della Natura e di un Islandese"
che analizza il tormentato rapporto dell'umanità con
la natura, "che affronta la concezione della natura come
espressione di quel sistema meccanicistico che è l'universo,
circuito chiuso e insondabile di costruzione e distruzione"
in cui l'infelicità arriva a permeare tutto il creato.
Pessimista è anche la
descrizione che ci dà Pascoli
in "X Agosto" e ne "Il bolide".
San Lorenzo, io lo so perché
tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là, come
in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo
nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall'alto dei
mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! D'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Pubblicata nel 1896, "X
Agosto" narra la vicenda dell'uccisione, apparentemente
senza motivo, del padre di Pascoli avvenuta la notte del 10
Agosto 1867.
In questa poesia il poeta riversa tutto il suo sgomento e il
dolore per un fatto così terribile, contrapponendo ad
esso l'indifferenza quasi totale del cosmo.
Nella prima strofa il "concavo cielo" piange facendo
cadere la sua moltitudine di stelle e il poeta dichiara di sapere
il perché. L'immagine, quindi, si sposta dall'immensità
celeste alla figura indifesa di una rondine uccisa con un verme
nel becco da portare ai suoi rondinini, che sembra descritta
attraverso una sequenza di fotogrammi che ne documentano la
caduta e la morte. Il "cielo lontano", però,
cui sembra indicare la rondine come in cerca di aiuto, non può
far altro che stare a guardare e attendere in silenzio la morte
del povero animale e, insieme a lei, quella del suo "nido",
simbolo di vittime innocenti.
Ora il poeta sposta l'attenzione di nuovo sulla Terra e paragona
la morte della rondine a quella altrettanto assurda del padre:
così come l'animale portava un verme nel becco per sfamare
i suoi piccoli, anche il padre di Pascoli recava in dono due
bambole per le figliolette. Lo stupore per l'insensata violenza
sembra quindi colpire anche lui che rimane con un grido negli
occhi sbarrati. Come nel nido i rondinini aspettavano mamma
rondine, così il figlio e la famiglia aspettano invano
il capo famiglia che "addita le bambole al cielo lontano":
un'altra volta il cielo è descritto come realtà
a sé stante che regna su tutto "dall'alto dei mondi
sereni". Davanti a tutto questo dolore, l'universo non
ha fatto niente per salvare le due vittime innocenti, ha solo
pianto in lontananza, come se volesse prendere le distanze dal
misero angolo di cosmo che è la Terra: "atomo opaco
del Male", piccolissimo corpo che non brilla nemmeno di
luce propria chiuso in sé stesso con tutta la sua miseria
e disperazione.
Ne"Il bolide", Pascoli
palesa la paura dell'universo sconfinato che provoca in lui
tanta estraniazione.
Tutto annerò. Brillava,
in alto in alto,
il cielo azzurro. In via con me non c'eri,
in lontananza, se non tu, Rio Salto.
Io non t'udiva: udivo i cantonieri
tuoi, le rane, graidar rauche l'arrivo
d'acqua, sempre acqua, a maceri e poderi.
Ricordavo. A miei vent'anni,
mal vivo,
pensai tramata anche per me la morte
nel sangue. E, solo, a notte alta, venivo
per questa via, dove tra l'ombre
smorte
era il nemico, forse. Io lento lento
passava, e il cuore dentro battea forte.
Ma colui non vedrebbe il mio
spavento,
sebben tremassi all'improvviso svolo
d'una lucciola, a un sibilo di vento:
lento lento passavo: e il cuore
a volo
andava avanti. E che dunque? Uno schianto;
e su la strada rantolerei, solo
No, non solo! Lì presso
è il camposanto,
con la sua fioca lampada di vita.
Accorerebbe la mia madre in pianto.
Mi sfiorerebbe appena con le
dita:
le sue lagrime, come una rugiada
nell'ombra, sentirei su la ferita.
Verranno gli altri, e me di
su la strada
porteranno con loro esili gridi
a medicare nella lor contrada,
così soave! Dove tu
sorridi
eternamente sopra il tuo giaciglio
fatto di muschi e d'erbe, come i nidi!
Mentre pensavo, e già
sentia, sul ciglio
del fosso, nella siepe, oltre un filare
di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio
truce, un lampo, uno scoppio
ecco scoppiare
e brillare, cadere, essere caduto,
dall'infinito tremolio stellare,
un globo d'oro, che si tuffò muto
nelle campagne, come in nebbie vane,
vano; ed illuminò nel suo minuto
siepi, solchi, capanne, e le
fiumane
erranti al buio, e gruppi di foreste,
e bianchi ammassi di città lontane.
Gridai, rapito sopra me: Vedeste?
Ma non v'era che il cielo alto e sereno.
Non ombra d'uomo, non rumor di péste.
Cielo, e non altro: il cupo
cielo, pieno
di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso
mi parve quanto mi parea terreno.
E la Terra sentii nell'Universo.
Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
errare, tra le stelle, in una
stella.
Il componimento, pubblicato
nel marzo 1903, narra il ricordo e le sensazioni suscitate nel
poeta dal passaggio di una meteora proprio nella stessa zona
dove in passato era stato ucciso il padre. Appare chiaro come
il trauma dell'assassinio del genitore non sia ancora stato
superato.
Il poeta si descrive solo, in un luogo desolato in compagnia
del "Rio Salto" e del cielo in lontananza, estraneo
che, mentre il paesaggio tutt'intorno si oscura, brilla: ora,
come allora, all'epoca del delitto, il cielo sta a guardare
mentre nel poeta salgono fortissime la paura e l'angoscia. Improvvisamente
il piano descrittivo balza al ricordo della fanciullezza dell'autore
spezzata dalla morte del padre e alla sensazione di morte e
bisogno di verità che lo spingevano a ripercorrere solo,
"tra l'ombre smorte", quei luoghi tentando di dare
un volto al nemico, all'assassino. Dal ricordo, si passa all'immaginazione
del momento della sua morte quando, finalmente, i morti della
famiglia, tra cui la madre, gli recheranno consolazione e conforto.
L'improvvisa apparizione di una meteora lo riporta subito alla
realtà con "un lampo, uno scoppio". Dall'immensa
volta celeste ecco che il poeta vede cadere fulmineamente un
"globo d'oro", che illumina tutto ciò che si
trova sul suo cammino: il paesaggio appare ora in netto contrasto
con l'inizio della poesia dove era tutto oscurato. Come in estasi
il poeta grida ma, ancora una volta, l'unico testimone è
il "cielo alto e sereno" che sembra non essersi accorto
di niente. Il cielo "cupo", "pieno di grandi
stelle", l'universo che contiene il tutto, in cui il poeta
prende coscienza di essere "piccolo e sperso" abitante
di una stella tra le stelle. Il cosmo interminabile contro il
quale la piccolezza umana non può niente.
Arriviamo ora al 1965, anno
in cui fu scoperta la "radiazione di fondo" e venne
quindi definitivamente ritenuta corretta la "teoria
del Big bang e dell'universo inflazionario".
Il XX secolo sembra aver dato tutte le risposte che si cercavano
sull'origine dell'universo, la scienza sembra essere diventata
onnipotente riuscendo anche a mandare i primi uomini sulla luna.
Anche il panorama letterario sembra giovare di questa ventata
di scoperte e conquiste trovando, proprio nella scienza, un
valido spunto. Non è un caso, quindi, che risalga proprio
a questo periodo la pubblicazione de "Le Cosmicomiche"
di Italo Calvino. Il libro è caratterizzato dal fatto
che ogni episodio è sviluppato intorno ad un'affermazione
scientifica valida e corretta.
I racconti "Tutto in un punto" e "Giochi senza
fine", per esempio partono da due affermazioni che hanno
lottato a lungo per affermarsi, l'una alle spese dell'altra:
la prima
sta alla base dell'espansione dell'universo , mentre la seconda
è fondamento della teoria dell'universo stazionario.
L'universo di Calvino è
un universo al di fuori del tempo e dello spazio, lontano da
qualsiasi esperienza, ma popolato da personaggi antropomorfici
che rispecchiano vizi e virtù del genere umano: l'indagine
dell'infinitamente grande e lontano diventa così dettagliatissima
osservazione del quotidiano, il cosmo, quindi, diventa chiave
di lettura della vita di tutti i giorni. L'universo diventa
specchio dei problemi e delle caratteristiche umane:
"Al contrario di quel
che può sembrare, non era una situazione che favorisse
la socievolezza; so che per esempio in altre epoche tra vicini
ci si frequenta; lì invece, per il fatto che vicini si
era tutti, non ci si diceva neppure buongiorno o buonasera.[
]
Era una mentalità, diciamolo, ristretta, quella che avevamo
allora, meschina. Colpa dell'ambiente in cui ci eravamo formati.
Una mentalità che è rimasta in fondo a tutti noi,
badate: continua a saltar fuori ancor oggi
"
La narrazione è affidata
all'onnipresente "Qfwfq", umano-non-umano, testimone
di tutti gli eventi possibili, che catapulta il lettore in un'atmosfera
surreale, dove fantasia e scienza si incontrano, dove si presentano
numerosissimi bivi da poter scegliere per poi approdare ad un
finale che, molto spesso, porta il racconto a conclusioni diverse
dalle premesse, come, per esempio in "Tutto in un punto"
dove l'universo non sembra nascere dal Big bang ma "dalla
voglia di tagliatelle
"
"Ragazzi, avessi un po'
di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!
E in quel momento tutti pensammo allo spazio che avrebbero occupato
le tonde braccia di lei muovendosi avanti e indietro con il
matterello sulla sfoglia di pasta, [
]nello stesso tempo
in cui la signora Ph(i)NK0 pronunciava quelle parole: -
le tagliatelle, ve' ragazzi!- il punto che conteneva lei e noi
tutti s'espandeva in una raggera di distanze d'anni luce e secoli
luce e miliardi di millenni luce e noi sbattuti ai quattro angoli
dell'universo, e lei dissolta in non so quale specie di energia
luce-calore, lei [
] era stata capace di un vero slancio
d'amore generale, dando inizio nello stesso momento al concetto
di spazio
[1] P. Bernardini Marzolla,
introduzione a Ovidio, Metamorfosi.
[2] Operette Morali, ed. Garzanti, pag. 3
[3] Le Operette Morali, Leopardi, ed. Garzanti, pag. 273
[4] Le Operette Morali, Leopardi, ed. Garzanti, pag. 117
[5] Tutto in un punto: Attraverso i calcoli iniziati da
Edwin P. Hubble sulla velocità dallallontanamento
delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta
la materia delluniverso era concentrata in un punto solo,prima
di cominciare a espandersi nello spazio. La grande esplosione
(big bang) da cui ha avuto origine luniverso sarebbe avvenuta
circa 15 o 20 miliardi di anni fa.
[6] Giochi senza fine: Se le galassie sallontanano,
la rarefazione delluniverso è compensata dalla
formazione di nuove galassie composte di materia che si crea
ex novo. Per mantenere stabile la densità media delluniverso,
basta che si crei un atomo didrogeno ogni 250 milioni
danni per 40 centimetri cubi di spazio in espansione.
(Questa teoria, detta dello stato stazionario, è
stata contrapposta allaltra ipotesi che luniverso
abbia avuto origine in un momento preciso, da una gigantesca
esplosione)