CENIS o CENIDE (grecoΚαινις Kainis) secondo la mitologia greca, era una ninfa, figlia secondo alcuni di Elato il Magnesio, secondo altri di Corono, un Lapita. Appare strettamente connessa con alcune importanti vicende mitiche che riguardano i Lapiti. Nel culto lunare antecedente all’avvento della religione olimpica Cenide impersonava probabilmente il novilunio (il suo nome significa infatti "nuova").
La sua assoluta singolarità nel panorama della mitologia greca sta nel suo mutamento di sesso, che a un certo punto della sua vita la fece diventare un uomo; si tratta probabilmente del più antico caso di cambiamento di sesso ricordato nella cultura occidentale.
Infatti Cenis fu amata dal dio Poseidone, che le volle offrire un dono: qualsiasi cosa lei desiderasse. Cenis domandò di essere trasformata in uomo e di essere invulnerabile; il dio eseguì la richiesta. Cenis mutò il nome in Ceneo (greco Καινεύς Kaineús, latinoCaenus), divenendo un fortissimo guerriero e guidando con successo gli eserciti lapiti in battaglia.
Ceneo si fece presto prendere la mano e pieno di orgoglio per il suo successo arrivò a piantare una lancia nel mezzo della piazza del mercato della città in cui risiedeva, costringendo tutti a venerarla come se fosse stata una divinità.
Zeus si indispettì per questo comportamento e decise di punirlo.
Quando Ceneo partecipò al matrimoniodi Piritoo e Ippodamia, durante il quale si scatenò la celebre lotta tra Lapiti e Centauri, Zeus indusse i Centauri ad accanirsi contro di lui e ad ucciderlo. Ceneo ebbe la meglio su molti di loro, perché grazie alla sua invulnerabilità gli attacchi dei Centauri andavano a vuoto; alla fine però venne sotterrato a colpi di tronchi d'albero e finito con terra e pietre, morendo soffocato.
Secondo quanto racconta Ovidio (libro XII delle Metamorfosi), Mopso scorse la sua anima volare via da sotto la catasta d’alberi in forma d’uccello dalle ali fulve. Al momento del funerale ci si accorse che il corpo di Ceneo aveva ripreso forme femminili.
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Dalle Metamorfosi di Ovidio il brano riguardante la vicenda, quindi la morte di Ceneo
E allora Nèstore: «In questa vostra epoca, Cigno
è stato l'unico a non temere un'arma, ad essere invulnerabile
a qualsiasi colpo. Ma un tempo io stesso vidi Cèneo di Perrèbia
subire mille colpi senza riportare sul corpo ferita,
Cèneo di Perrèbia, che, famoso per le sue gesta,
viveva sull'Otri. E la cosa era tanto più prodigiosa,
perché era nato femmina». A sentire di quel portento, i presenti,
incuriositi, lo pregano di raccontare. E fra questi Achille:
«Avanti, narra, siamo tutti ansiosi di ascoltarti,
vecchio eloquente, saggezza del nostro tempo:
chi era questo Cèneo, perché cambiò natura,
in quale spedizione, in quale battaglia lo conoscesti,
e da chi fu vinto, se vi fu mai qualcuno che lo vinse?».
E allora il vecchio: «Benché la vecchiaia inoltrata mi faccia velo
e parecchi avvenimenti a cui ho assistito in gioventù mi sfuggano,
tuttavia ne ricordo ancora molti; e nessun fatto più di questo,
fra i tanti che ho vissuto in pace e in guerra, mi si è impresso
nella mente. E se una lunga vecchiaia poté rendere qualcuno
testimone di così numerosi eventi, ebbene, son vissuto
duecento anni ed ora io sto vivendo la mia terza età.
Figlia di Èlato, Ceni, la più bella fanciulla della Tessaglia,
era così nota per il suo fascino, che molti pretendenti
delle città vicine e delle tue (era infatti della tua terra,
Achille) la desideravano e la sognavano invano.
Anche Peleo avrebbe forse cercato di averla in moglie,
se non gli fosse già toccata in sorte, o almeno già promessa,
la mano di tua madre. Ceni non volle sposare
nessuno, è vero, ma mentre vagava lungo una spiaggia deserta
fu violentata dal dio del mare: così si raccontava.
Nettuno, colte le gioie di quell'avventura amorosa,
le disse: "Qualunque tuo desiderio, stai tranquilla,
sarà esaudito: scegli cosa vuoi". Anche questo si raccontava.
E Ceni: "L'oltraggio che ho patito mi fa scegliere il massimo:
che mai più debba subire tale affronto. Fa' che non sia più femmina
e mi avrai dato tutto". Le ultime parole lei le pronunciò
con un tono grave, con voce che poteva sembrare d'uomo,
come ormai era. Il dio degli abissi marini aveva acconsentito
al suo desiderio, e in più le aveva concesso d'esser uomo immune
da ferita e che mai potesse soccombere a un'arma.
Lieto del dono l'Atràcide se ne va e trascorre l'esistenza
in attività virili, aggirandosi dove scorre il Peneo.
[..]
"Anche te, Ceni, dovrò sopportare? Donna per me sarai sempre,
sarai sempre Ceni. Ti sei scordata la natura
in cui sei nata, non ti torna a mente perché sei stata premiata,
a quale prezzo ti sei acquistata questo falso aspetto d'uomo?
Ripensa come sei nata o cosa hai dovuto subire, e vai, prendi
conocchia e cestino, fila col pollice la lana,
e lascia la guerra agli uomini!". Mentre così si vantava,
Ceneo scaglia una lancia e gli trapassa il fianco teso nella corsa,
dove l'uomo si congiunge al cavallo. Folle di dolore,
Latreo colpisce con la picca il viso indifeso del giovane.
La picca rimbalza, come la grandine sulla cima di un tetto
o come un sassolino lanciato contro la pelle di un tamburo.
Allora ingaggia un corpo a corpo, cercando d'affondargli la spada
nel fianco acerbo; ma per quella non esiste un varco.
"Eppure non mi sfuggirai, no!" grida. "Ti sgozzerò a fil di spada,
visto che la punta si smussa." E, volta la spada di taglio,
gli allunga da destra un gran fendente attraverso il ventre.
L'impatto sul corpo sprigiona un gemito, come colpo sul marmo,
e battendo sul callo della pelle, la lama va in mille pezzi.
Stanco infine di offrire il fianco illeso all'avversario attonito,
Ceneo: "Avanti," disse, "mettiamo ora alla prova il tuo corpo
col ferro mio!", e immerse sino all'elsa la spada omicida
nel petto di Latreo, gliela girò e rigirò alla cieca
nelle viscere, producendogli squarci su squarci.
Allora con immenso strepito i Centauri furibondi
si scatenano e solo contro lui rivolgono e scagliano le armi.
Ma queste cadono spuntate e Cèneo, figlio di Èlato,
sotto tutti quei colpi resta indenne, senza una macchia di sangue.
Quel prodigio lascia tutti interdetti. "Oh, vergogna infinita!"
esclama Mònico. "Da un uomo solo, un uomo?, noi, un popolo,
siam vinti. Ma lui, sì, che è un uomo; noi, per viltà nostra
siamo come era lui un tempo! A che servono queste membra
immani e la forza di due creature, il fatto che la natura
abbia in noi combinato due tra gli esseri più forti?
Non sembra davvero che nostra madre sia una dea e Issìone,
ch'era tanto grande da concepire speranze sulla divina
Giunone, nostro padre: ci lasciamo battere da un mezzo uomo.
Rovesciategli addosso rocce, tronchi e monti interi,
soffocategli quell'anima tenace sotto un cumulo di alberi.
Che una foresta gli schiacci la gola: a ucciderlo penserà il peso!"
E urlando, trovato un tronco abbattuto dalle raffiche furiose
dell'Austro, lo scagliò contro quel nemico invincibile.
Fu come un segnale: in pochi istanti l'Otri si ritrovò
privo di piante e il Pelio non ebbe più un filo d'ombra.
Sepolto sotto quel cumulo immane, Cèneo, oppresso dal peso,
smania e, facendo forza con le sue spalle, sostiene i tronchi
che si ammucchiano. Ma poi quando sul capo e il viso gli cresce
la mole e il suo respiro non trova più aria per nutrirsi,
comincia un poco a cedere e invano ora cerca di drizzarsi
per raggiungere l'aria e scrollarsi di dosso la foresta;
e un poco la smuove, ecco, come se l'alto Ida,
che da qui vediamo, fosse scosso da un terremoto.
L'esito è incerto: alcuni dicevano che il peso dei tronchi avesse
schiacciato il corpo spingendolo fin dentro al Tartaro senza vita.
Per il figlio di Ampice no: da sotto la catasta aveva visto
uscire nel cielo limpido un uccello dalle ali fulve,
un uccello che anch'io vidi allora per la prima e l'ultima volta.
Come lo scorse che con lento volo volteggiava
sulle sue schiere, diffondendo intorno grandi strida, Mopso,
seguendolo insieme con lo sguardo e col cuore, disse:
"Salute a te, gloria del popolo dei Làpiti,
eroe grandissimo, Cèneo, finora ed ora uccello unico!".
[..]
Un breve cenno si trova anche nell'Eneide di Virgilio, quando Enea scende agli Inferi e vi trova vari personaggi
...
Ceneo giovinetto un tempo, femmina ora, di nuovo cambiata dalla morte nell'antica forma. (Libro VI vv. 440-466)