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Fantascienza

 

NOTTURNO
Isaac Asimov


di Stefano Sampietro
“Notturno” identifica due opere: un racconto di Isaac Asimov del 1941 (sul quale sarà incentrato il presente contributo) e un romanzo di Robert Silverberg del 1990. Il secondo è un esplicito ampliamento del primo, tanto che risulta scritto a quattro mani, Silverberg e Asimov appunto, ed è  tutt’altro che da disprezzare, sebbene la sua forza risieda principalmente nell’idea di fondo di Asimov.

Alla sua uscita, nel 1941, “Notturno” fu considerato da alcuni critici il miglior racconto di fantascienza mai scritto, e ancora oggi, nonstante più di mezzo secolo trascorso di science fiction, qualcuno la pensa così.

La sua genesi, come spesso accade per le opere più famose, sembra di per sé un passo narrativo. Si dice infatti che un giorno, John Campbell Jr. chiese ad Asimov: “Cosa accadrebbe se gli uomini potessero vedere le stelle una sola volta ogni mille anni?”(era certamente una domanda da porre a uno scrittore di fantascienza!) e Asimov rispose: “Impazzirebbero”, scappando subito via a scrivere il racconto.

“Notturno” si apre in una sala di un osservatorio, con il dialogo tra il giornalista Theremon 762, l’autorevole astronomo e direttore dell’università di Saro, Aton 77, e un suo collaboratore, Beenay 25. I nomi sono evidentemente alieni, come se Asimov volesse fin da subito chiarire che non è della vecchia Terra che si parla.

Tra Aton e Theremon c’è una certa ostilità (rapporto fra scienza e mass media?), il primo rinfaccia al giornalista di aver ridicolizzato negli ultimi mesi la sua teoria, che prevede nientemeno che la fine del mondo:

«In poco meno di quattro ore la civilizzazione, così come noi la conosciamo, arriverà alla sua fine. E accadrà perché, come lei vede, Beta è l’unico sole rimasto nel cielo.» Aton sorrise, trucemente. «Lo scriva! Non ci sarà nessuno, a leggerlo.»

Il giornalista è scettico, come la maggior parte dell’opinione pubblica, ma chiede di rimanere all’osservatorio per scrivere un resoconto degli eventi. Dopo aver ricevuto il benestare dei presenti, irrompe rumorosamente nella sala un paffuto psicologo, Sheerin 501, molto meno serioso dei colleghi astronomi (“gli astronomi erano gente strana”, pensa Theremon all’inizio del racconto). Spetta a Sheerin il compito di spiegare nei dettagli, e senza tecnicismi matematici, come stanno le cose.

«No, no e no, per l’amor del cielo» interruppe Sheerin. «Se lei fa una domanda del genere a Aton, ammesso che lui abbia voglia di risponderle, si sentirà rovesciare addosso pagine di cifre e volumi di grafici. Cose che per lei non avranno né capo né coda. Ora, se la domanda la rivolgesse a me, invece, io potrei fornirle il punto di vista del profano.»

Ecco dunque la situazione. Lagash (così si chiama il loro pianeta) ha sei soli, e tra poco nessuno di essi sarà più in cielo a far luce. Il problema è che su Lagash non s’è mai vista la notte. A memoria d’uomo, almeno un sole c’è sempre stato, la loro società è basata sulla luce perenne, e il buio provocherà una pazzia generale e la conseguente distruzione della civiltà.

Il gruppo di astronomi, dopo aver cercato invano di convincere il mondo, ha allestito un rifugio per i pochi convinti, sostanzialmente colleghi e famigliari, con la speranza di ricostruire la civiltà dopo il disastro. Alcuni di loro, invece, come Aton e Beenay, rimarranno all’osservatorio, per documentare e fotografare gli eventi.

I dettagli astronomici della catastrofe sono presto chiariti. Non più di una ventina d’anni prima, è stata dimostrata la “Legge della Gravitazione Universale”. Tuttavia, i dati raccolti nell’ultimo decennio circa alcuni movimenti orbitali non corrispondevano esattamente alla teoria. Aton allora postulò l’esistenza di una luna attorno a Lagash (mai osservata per l’assenza della notte) e con questa ipotesi, i dati combaciavano alla perfezione. Nel momento in cui si svolge la discussione, cinque dei sei soli sono sotto l’orizzonte e l’unico nel cielo, Beta, sarà in eclissi per mezza giornata, coperto appunto dall’ipotizzata luna.

Come se non bastasse, su Lagash esiste una setta religiosa, il Culto che, basandosi sul sacro “Libro delle Rivelazioni”, profetizza esattamente la stessa cosa, cioè l”’Oscurità totale” e la fine del mondo. Anzi, la scoperta di Aton pare sia stata possibile grazie ad alcuni dati forniti dal Culto. (La convergenza tra scienza e misticismo è curiosa, ma solo apparente: i rapporti tra gli astronomi e la setta saranno più avanti tutt’altro che pacifici).

A sostegno della pessimistica tesi, convergono anche altre discipline. E’ lo stesso psicologo che ne parla, ricordando che la teoria archeologica più accreditata sostiene il carattere ciclico della storia di Lagash. Diversi studi archeologici, infatti, indicano l’esistenza di altre civilizzazioni preesistenti a quella attuale, tutte giunte a vertici paragonabili a questa e tutte sistematicamente distrutte dal fuoco.

Tra le varie “spiegazioni”, c’è proprio quella fornita dal Culto, secondo cui ogni duemila anni Lagash entra in un’immensa caverna, tutti i soli spariscono e appaiono delle cose chiamate “Stelle”, che immancabilmente gettano l’umanità nella follia e nel caos.

Nel frattempo, fuori dall’osservatorio, la luce di Beta sembra diventare sempre più debole, e Theremon, il giornalista, comincia a perdere le sue certezze. Chiede allo psicologo perché mai il buio debba far impazzire la gente. Dopo tutto, è una semplice assenza di luce, come quando si va nelle caverne. “E’ mai stato in una caverna?”, gli chiede allora Sheerin, “No, naturalmente!”, risponde lui. Sheerin dice di averci provato e di essere subito fuggito a gambe levate. Il giornalista non è convinto e lo psicologo propone un esperimento (i due si sono intanto spostati in un’altra stanza): chiude le tende e, con la luce esterna insolitamente bassa, riesce a ottenere un buio quasi completo. In pochi secondi, Theremon accusa un senso di soffocamento e la sensazione che le pareti gli cadano addosso. Sheerin lo incalza:

«Immagini l’Oscurità… dappertutto. Niente luce, per quello che le è dato vedere. Case, alberi, campi, terra, cielo… tutto nero! E per di più le Stelle, a quanto dicono, qualunque cosa siano. Riesce a concepirlo?»

«Sì, riesco» dichiarò Theremon, in tono lugubre.
Al che, Sheerin calò il pugno sul tavolo, con improvvisa violenza. «Mente! Non riesce a concepirlo! Il suo cervello non è stato costruito per una concezione del genere, proprio come non è in grado di concepire l’eternità o l’infinito. Lei può soltanto parlarne. Una frazione della realtà è sufficiente a sconvolgerla e, quando questa realtà subentrerà in tutta la sua concretezza, il suo cervello si troverà davanti a un fenomeno che esula dai limiti della sua comprensione. Lei impazzirà, in modo completo e permanente! Non c’è alcun dubbio, ha capito?»


Ma anche se fosse, chiede Theremon, perché mai le città andrebbero distrutte? La risposta è semplice:

«Se lei fosse nell’Oscurità, che cosa chiederebbe più di qualsiasi altra cosa, che cosa invocherebbe, con tutte le forze? La luce, maledizione, la luce!»
«Ebbene?»
«E in che modo potrebbe ottenere la luce?»
«Non lo so» replicò Theremon, in tono categorico.
«Qual è il solo modo di ottenere la luce, a prescindere dai soli?»
«Cosa vuole che ne sappia?»
Erano fermi faccia a faccia, naso a naso, quasi.
«Si brucia qualcosa, egregio signore» disse Sheerin.

Il fuoco, oltre che dare calore, illumina, sebbene questa funzione sia del tutto inutile nel loro mondo. E allora ecco le città in fiamme e la distruzione totale.

D’un tratto, si sente uno schianto. Theremon e Sheerin raggiungono gli altri e scoprono che nell’osservatorio si è introdotto un fanatico della setta del Culto, con l’intenzione di distruggere tutta l’attrezzatura. I presenti lo bloccano, e dalla discussione che segue, si comprende meglio il rapporto tra Aton e il Culto:

«Gli avevo chiesto dei dati che soltanto il Culto poteva fornire» continuò Aton, irritandosi, «E mi sono stati forniti. Di questo, gli sono grato. In cambio, ho promesso di dimostrare la verità essenziale che sta alla base del Culto.»
«Non c’era nessun bisogno di dimostrarla» fu l’orgogliosa risposta. «A provarla, basta il Libro delle Rivelazioni.»
[…]
«Mi sono offerto di presentare uno sfondo scientifico per il vostro credo. E l’ho fatto!»
Il cultista socchiudeva le palpebre, amareggiato. «L’ha fatto, sì… con sottigliezza volpina, perché le sue affermazioni facevano, sì, da sfondo al nostro credo ma, al tempo stesso, lo rendevano perfettamente superfluo. Lei ha fatto dell’Oscurità e delle Stelle dei fenomeni naturali, privandoli di tutto il loro valore. Una vera bestemmia, la sua.»

(Che Asimov volesse dire la sua circa l’inconciliabilità tra scienza e fede?)

Poco dopo, comincia l’eclissi. E’ Theremon a notare per primo che “Beta appariva scheggiato da una parte” e ormai il giornalista è convinto della ragione degli astronomi. Tutti allora si danno da fare, dopo un istante di stupore, assumono i propri ruoli negli ultimi preparativi.

Giungono notizie dalla città: la paura comincia a dilagare e, giusto per aggiungere un ulteriore problema, i cultisti pare stiano istigando la folla a marciare verso l’osservatorio. Ma, vista la distanza, forse l’Oscurità giungerà prima di loro.

L’assistente di Aton, Beeney 25, si unisce a Theremon e Sheerin, e altri particolari di carattere astronomico vengono forniti al lettore. Dice Beeney:

«Ehi, sono contento che abbia tirato in ballo l’argomento.» Alzò l’indice, socchiudendo le palpebre. «Ho riflettuto molto su quelle Stelle, e m’è venuta un’ispirazione interessante. E’ campata in aria, intendiamoci, mi guarderei bene dal prenderla sul serio, ma non è male, secondo me. Vuole che gliela dica?»
Sembrava incerto, ma Sheerin si lasciò andare contro lo schienale e disse: «Coraggio, sì! Sono tutto orecchi.»
«Bene, allora, supponiamo che vi siano altri soli, nell’universo.» Beeney s’interruppe, con un po’ di timidezza. «Voglio dire, soli che siano così distanti per cui la luce non si veda, tanto arriva fioca. Ora lei penserà che abbia letto qualcuno di quei libri di fantasia, scommetto.»

Curioso i “libri di fantasia”… perché non “libri di fantascienza”? Colpa di Asimov o della traduzione? Comunque, il giovane e modesto Beeney continua nell’esposizione della sua idea. Questi soli, se esistessero, non influirebbero sull’orbita di Lagash, perché sufficientemente lontani (su Lagash, la Legge della Gravitazione Universale è proprio uguale alla nostra, con la faccenda del quadrato delle distanze e tutto il resto… naturalmente, per Asimov, la fisica è universale!). Poniamo che tali soli siano parecchi, dice ancora Beeney, “una dozzina o due, magari” (!). Ecco che allora, nell’oscurità, essi diventerebbero visibili e ci apparirebbero “piccolissimi, come tante biglie, diciamo. Si sa che i cultisti parlano di milioni di Stelle, ma probabilmente esagerano.

Le divagazioni scientifiche continuano:

«E ho anche un’altra ideuzza divertente» disse Beeney. «Ha mai pensato come sarebbe semplice il problema della gravitazione se soltanto avessimo un sistema sufficientemente semplice? Supponiamo d’avere un universo in cui ci sia un pianeta con un unico sole. Il pianeta descriverebbe un’ellisse perfetta e l’esatta natura della forza gravitazionale sarebbe così evidente da venire accettata come un assioma. Su un mondo così, gli astronomi scoprirebbero la gravità forse prim’ancora d’avere inventato il telescopio. L’osservazione a occhio nudo sarebbe sufficiente.»
«Ma un sistema così, sarebbe dinamicamente stabile? » obiettò Sheerin, dubbioso.
«Oh, sì! Lo chiamano il caso “dell’uno e uno”. E’ stato dimostrato matematicamente, ma sono le implicazioni filosofiche, quelle che m’interessano.»
«Pensarlo come un’astrazione è divertente,» ammise Sheerin. «Un po’ come un gas perfetto, o lo zero assoluto.»
«Naturalmente» continuò Beenay, «C’è il guaio che la vita sarebbe impossibile, su un pianeta così. Non ci sarebbe abbastanza luce e calore, e poi, in un sistema come quello, per metà della giornata una parte del pianeta resterebbe totalmente al buio, per effetto della rotazione. In simili condizioni è inutile sperare nello sviluppo della vita, che dipende fondamentalmente dalla luce…»

Nell’osservatorio la luce sta diventando sempre più bassa e Aton tira fuori delle “cannucce dallo spessore di due o tre centimetri e lunghe una trentina”. Una volta accese, le piccole torce affascinano i presenti, anche per la semplice ingegnosità del loro funzionamento.

D’un tratto, dei suoni esterni attraggono l’attenzione di tutti: la folla impazzita dalla città sta arrivando, molto prima del previsto (all’Oscurità mancano quindici minuti, secondo i calcoli degli astronomi). A fatica, nella penombra sempre più densa e con l’insolita luce delle torce, Sheerin e Theremon scendono dalle scale, riuscendo a bloccare l’entrata dell’osservatorio con mobili e oggetti vari.

Risaliti nella cupola, raggiungono gli altri, e la scena finale si presenta al lettore. L’ultimo debole raggio di Beta si spegne nell’aria. Il cultista tenta una fuga disperata ma viene bloccato, ormai in preda a una crisi mistica. Sheerin, lo psicologo, lancia uno strano grido (“una risata isterica che finì in una specie di rantolo”). Theremon, anch’egli terrorizzato, alza lo sguardo nella tenebra, fuori dalla finestra, e vede le Stelle:

«...Lagash si trovava proprio al centro di un grappolo gigantesco. Tremila potentissimi astri risplendevano di un fulgore che feriva l’anima, più spaventosamente gelido, nella sua orrenda indifferenza, del vento tagliente che spirava invisibile attraverso un mondo freddo, orribilmente informe.»

Poi il giornalista è vinto dal panico, e nell’ultimo crudele istante di lucidità, si rende conto di impazzire.

Perfino Aton, la guida autorevole del gruppo di scienziati, “frigna come un bambino terrorizzato” e, tra i singhiozzi, lo si sente dire:

«“Stelle… tutte le Stelle… noi non sapevamo niente. Non sapevamo affatto. Credevamo che sei stelle in un universo fossero tante. Adesso è l’oscurità per sempre, per sempre…”»

La fine è dunque la pazzia, e soprattutto l’oscurità, “quasi” completa:

«Qualcuno tentò di afferrare l’ultima torcia, che cadde e si spense. Nel buio totale, l’orribile luccichio degli astri indifferenti parve più vicino. Ma fuori, verso Saro City, un chiarore rosso cominciava a spandersi, si faceva sempre più intenso, e non era quello di un sole.
La lunga notte era calata di nuovo.»

Riferimenti bibliografici in lingua italiana:

  • Asimov, Isaac, “Notturno” (Nightfall), in “Il meglio di Asimov”, vol. I, Mondadori, 1990.
  • Asimov, Isaac e Silverberg, Robert, “Notturno” (Nightfall), Bompiani, 2001.


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