MARGUERITE
YOURCENAR
1903
- 1987
Memorie
di Adriano
[...]A questo
punto conviene ch'io ti accenni un'abitudine che per tutta
la vita mi indusse a percorrere sentieri meno segreti di
quelli di Eleusi, ma che, in fin dei conti, vi corrono paralleli;
voglio intendere lo studio degli astri. Sono stato sempre
amico degli astronomi e cliente degli astrologhi. La scienza
di questi ultimi è incerta, falsa nelle singole parti,
forse veritiera nell'insieme; dato che l'uomo, particella
dell'universo, è governato dalle leggi medesime che
presiedono al cielo, non è poi così assurdo
cercare lassù i temi delle nostre esistenze, le fredde
simpatie che partecipano ai nostri successi e al nostri
errori. Non c'è sera d'autunno in cui io mancai mai
di salutare, a sud dell'Acquario, il Corriere celeste, il
Dispensatore insigne sotto il cui segno sono nato. Non mancavo
mai di riconoscere, in ciascuna delle loro evoluzioni, Giove
e Venere, i moderatori della mia vita, né di misurare
l'influenza del funesto Saturno.
Ma se questa strana proiezione dell'umano sulla volta stellare
spesso turbava le mie veglie, ancor più fortemente
mi interessavo alle matematiche celesti, speculazioni astratte
alle quali i grandi corpi incandescenti ci inducono. Uniformandomi
ad alcuni più temerari tra i nostri sapienti, ero
incline a ritenere che la terra partecipasse anch'essa a
quel periplo notturno e diurno del quale le processioni
sacre di Eleusi rappresentano, tutt'al più, il simulacro
umano. In un mondo dove tutto non è che turbine di
forze, danza di atomi, dove tutto si trova contemporaneamente
in alto e in basso, al centro e alla periferia, non riuscivo
a farmi convinto dell'esistenza d'un globo immobile, d'un
punto fisso che non fosse al tempo stesso in moto.
Altre volte, i calcoli sul ricorso degli equinozi, già
stabilito da Ipparco di Alessandria, assillavano le mie
veglie notturne: vi ritrovavo sotto forma di dimostrazione
e non più favola o simbolo, lo stesso mistero eleusino
dei corsi e ricorsi. La Spiga della Vergine, ai nostri giorni,
non si trova più in quel punto della carta dove l'ha
segnata Ipparco; e questa variazione è il compimento
d'un ciclo, che conferma le ipotesi dell'astronomo.
Lentamente, ineluttabilmente, il firmamento tornerà
a essere quello che era ai tempi di Ipparco: e sarà
nuovamente quello che è oggi, ai tempi di Adriano.
Quel disordine s'integrava nell'ordine; il mutamento faceva
parte d'un piano che l'astronomo era in grado di prevedere
in anticipo; lo spirito umano rivelava la sua partecipazione
all'universo per il fatto d'aver concepito teoremi esatti
così come a Eleusi con le grida rituali e le danze.
L'uomo che contempla gli astri, e gli astri contemplati
ruotano ineluttabilmente verso la loro fine, segnata in
qualche punto del cielo. Ma ogni momento di questa caduta
rappresentava un tempo d'arresto, un riferimento, il segmento
d'una curva, solida quanto una catena d'oro. Ogni slittamento
ci riconduceva a quel punto che, oggi, dato che per caso
ci siamo trovati a viverci, ci appare un centro.
Sin dalle notti della mia
infanzia, quando col braccio levato Marullino m'indicava
le costellazioni, l'interesse per le cose del cielo non
mi ha mai abbandonato. Al campo, durante le veglie forzate,
ho contemplato la luna che corre tra le nubi dei cieli
barbari; più tardi, nelle limpide notti dell'Attica,
ho ascoltato l'astronomo Terone di Rodi spiegarmi il suo
sistema del mondo; disteso sul ponte d'una nave, in pieno
Egeo, osservavo il lento moto oscillante dell'albero maestro
spostarsi tra le stelle, andare dall'occhio acceso del
Toro al pianto delle Pleiadi, dal Pegaso al Cigno; e ho
risposto come meglio sapevo alle domande serie e ingenue
del giovinetto che contemplava quello stesso cielo con
me. Qui, in Villa, ho fatto costruire un vero osservatorio,
ma oggi il mio male m'impedisce di ascenderne i gradini.
Una volta, nella mia vita, ho fatto di più: ho
offerto il sacrificio d'una intera notte alle costellazioni.
Ciò avvenne dopo la mia visita a Osroe, durante
la traversata del deserto siriaco. Disteso supino, gli
occhi bene aperti, tralasciando per qualche ora ogni pensiero
umano, mi sono abbandonato dal tramonto all'aurora a quel
mondo di cristallo e di fiamma. È stato il più
bello dei miei viaggi. Il grande astro della Lira, stella
polare degli uomini che vivranno quando noi da dozzine
di migliaia d'anni non saremo più, splendeva sul
mio capo. I Gemelli rilucevano d'una luce tenue negli
estremi bagliori del tramonto; il Serpente precedeva il
Sagittario; l'Aquila saliva allo zenit, le ali aperte,
e ai suoi piedi splendeva quella costellazione non ancora
designata dagli astronomi alla quale in seguito ho dato
il più caro dei nomi. La notte, che non è
mai così totale come credono coloro che vivono
e dormono nelle stanze, si fece più cupa, poi si
rischiarò. Si spensero i fuochi, che s'erano lasciati
accesi per fugare gli sciacalli; quel mucchio di brace
ardente mi rammentò il nonno, in piedi nella sua
vigna, le sue profezie che ormai erano il presente, e
che sarebbero state ben presto il passato.
Ho cercato di aderire al divino sotto molte forme; e ho
conosciuto molte estasi. Ve ne sono di atroci; altre,
d'una dolcezza struggente. Quella della notte siriaca
fu singolarmente lucida. Mi tracciò i movimenti
celesti con una precisione che nessuna osservazione parziale
mi avrebbe mai consentito di raggiungere. Nel momento
in cui scrivo, io so esattamente quali stelle passano
qui, a Tivoli, sopra questo soffitto ornato di stucchi
e di pitture preziose, e altrove, laggiù, su un
sepolcro. Qualche anno dopo, la morte doveva diventare
l'oggetto delle mie meditazioni costanti, il pensiero
al quale ho dedicato tutte quelle forze del mio spirito
che lo Stato non assorbiva. E chi dice morte esprime anche
quel mondo misterioso al quale forse, per suo mezzo si
accede. Dopo tante riflessioni ed esperienze, talvolta
condannabili, ignoro ancora quello che accade dietro quella
buia cortina. Ma la notte siriaca rappresenta la mia parte
consapevole d'immortalità.[...]
Segnalata
da Giuliana http://space.tin.it/arte/whpa
Publio
Elio Adriano, nato ad Italica, Siviglia nel 76 e morto
a Baia nel 138 d.C., imperatore romano dal 117 al 138,
fu un personaggio abbastanza singolare, che spicca nella
schiera dei monarchi romani : amante della pace, delle
scienze e delle arti, lui stesso poeta, artista e soprattutto
architetto. Suoi i celebri versi:
Animula
vagula, blandula,
hospes
comesque corporis
quae
nunc abibis in loca
pallidula,
rigida, nudula,
nec,
ut soles, dabis iocos.
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Piccola
anima smarrita e soave,
ospite e compagna
del corpo,
che ora ti appresti
a scendere in luoghi
incolori, freddi,
spogli,
mai più ti
abbandonerai ai giochi preferiti.
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