La luna e l’Empire
E chi poteva pensare che ti avrei trovata
anche qui, così vicina
all’Empire da sembrare una compagna del suo viaggio attraverso il cielo. E chi pensava che ti saresti fermata
per guardare queste strade così sprofondate
che quasi mai un astro è così alto da potersi vedere. Per riconoscerti non sarebbe bastata
la luce bianca che regali alle pianure della terra
del mare perché qui si confonde con le altre luci e i colori che la notte sprigiona. Per questo ti ho aspettata, sera dopo sera, e ho lasciato scorrere il tempo nello spicchio di cielo che sapevo tuo e ti ho vista salire e avvicinarti
all’antenna sospesa con il suo faro
rosso lassù sopra il biancore
degli ultimi piani dell’Empire illuminati
tanto da sembrare – loro sì – un astro innamorato della terra, e mi sono sentito
geloso. La cosa più difficile è stata ritrovarti ogni sera sempre un poco
più tardi. La cosa più difficile è stata
fermarmi in quell’angolo dove uno spiazzo provvisorio apriva la vista e lasciava vedere lo spicchio di cielo che sapevo tuo mentre tutti correvano
via ed era l’ora che gli ultimi spettacoli cominciavano e non potevamo che amarci in mezzo alla strada come amanti
clandestini e l’attesa ogni sera
era più lunga e la tua nudità appariva
– quando infine appariva – così bianca che io mi sentivo scoperto, impacciato con la mia macchina digitale tra le mani come un voyeur pronto a scattare del visibile le foto possibili e a tenerle
segrete. Ed è stato così fino all’ultima sera che ci siamo incontrati e la strada, tutta, era diventata nostra, e di quelli che passavano non ci siamo accorti e intanto cominciava il tuo ritorno lento verso il buio.
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È quasi ancora piena
È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici del cielo
non si sa nulla o quasi; c’è appena una memoria che si attarda come a un appuntamento controvoglia. Qui si vedono
soltanto luci fioche che diffondono nell’aria gialle scie
di uomini in cammino. E il cielo è là, appena una memoria
lontana: c’è tanta terra qui, ci sono pavimenti di pietre sminuzzate, infiniti, logori di passi, di tempo, del continuo rincorrersi di voglie, di pensieri, di intenzioni
e rapprendersi di orme, di passaggi. Sarà per questo che ti senti resistere accanto una lentezza concreta, resa oggetto dal trascinarsi in mezzo agli archi, tra le tessere che lega
scompostamente una malta rossastra qua e là
frantumata. C’è un peso in più che hai addosso sotto questi portici e ti copre e ti scalda come un vecchio plaid e puoi vivere tutta la vita senza avere il rimpianto di non avere visto questa sera
la luna già un poco calante
nell’alone che l’ha fatta diventare più grande
e l’ha portata vicino e l’ha posata lì sopra la piazza
Otto agosto così grande
anch’essa così pronta ad abbracciare il luminoso nulla nel suo vuoto notturno. Quanto a te, ti accontenti della volta bassa che ricopre i tuoi umani passi, ti arrendi
all'indolente specchiarsi di ciò che sei
in ciò che ti racchiude. Non avrai bisogno
di altro perché qui è così piccolo il mondo che basteranno poche parole dette con indifferenza per farti vivere e lasciare una gialla scia, un filo che permetta il ritorno o il ricordo almeno, una traccia come se la pietra assorbisse di te un memento, anzi come se tu
– insensata Medusa – fossi capace di impietrire il tuo respiro per fare rimanere una traccia nel mondo che attraversi.
È quasi ancora piena questa sera la luna, ma sotto i portici senti il moto delle cose che scorre adagio e che ti sfiora
piano e sei certo che continuare a vivere è possibile come forse non avresti creduto se fossi stato solo sulla piazza grande con quella grande luna opaca a penetrarti di nulla come penetra ora le pietre del selciato e ne disegna i contorni neri in una fuga che non sai dove finisce.
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