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Michele Tortorici
La luna e l’Empire

E chi poteva pensare che ti avrei trovata
anche qui, così vicina
all’Empire da sembrare
una compagna del suo viaggio attraverso
il cielo. E chi pensava che ti saresti fermata
per guardare queste strade così sprofondate
che quasi mai un astro è così alto da potersi
vedere. Per riconoscerti non sarebbe bastata
la luce bianca che regali
alle pianure della terra
del mare perché qui si confonde
con le altre luci e i colori che la notte
sprigiona. Per questo ti ho aspettata, sera
dopo sera, e ho lasciato scorrere il tempo
nello spicchio di cielo che sapevo
tuo e ti ho vista salire e avvicinarti
all’antenna sospesa con il suo faro
rosso lassù sopra il biancore
degli ultimi piani dell’Empire illuminati
tanto da sembrare – loro sì – un astro
innamorato della terra, e mi sono sentito
geloso. La cosa più difficile è stata
ritrovarti ogni sera sempre un poco
più tardi. La cosa più difficile è stata
fermarmi in quell’angolo dove uno spiazzo
provvisorio apriva la vista e lasciava
vedere lo spicchio di cielo che sapevo
tuo mentre tutti correvano
via ed era l’ora che gli ultimi
spettacoli cominciavano e non potevamo
che amarci in mezzo alla strada come amanti
clandestini e l’attesa ogni sera
era più lunga e la tua nudità appariva
– quando infine appariva – così bianca che io
mi sentivo scoperto, impacciato con la mia
macchina digitale tra le mani
come un voyeur pronto a scattare del visibile
le foto possibili e a tenerle
segrete. Ed è stato così fino all’ultima
sera che ci siamo incontrati e la strada, tutta,
era diventata nostra, e di quelli
che passavano non ci siamo accorti e intanto
cominciava il tuo ritorno lento verso il buio.






È quasi ancora piena

È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici del cielo
non si sa nulla o quasi; c’è appena una memoria
che si attarda come a un appuntamento
controvoglia. Qui si vedono
soltanto luci fioche che diffondono nell’aria gialle scie
di uomini in cammino. E il cielo è là, appena una memoria
lontana: c’è tanta terra
qui, ci sono pavimenti di pietre sminuzzate, infiniti,
logori di passi, di tempo, del continuo
rincorrersi di voglie, di pensieri, di intenzioni
e rapprendersi di orme, di passaggi. Sarà per questo
che ti senti resistere accanto una lentezza
concreta, resa oggetto dal trascinarsi in mezzo agli archi,
tra le tessere che lega
scompostamente una malta rossastra qua e là
frantumata. C’è un peso in più che hai
addosso sotto questi portici e ti copre
e ti scalda come un vecchio plaid e puoi vivere
tutta la vita senza avere
il rimpianto di non avere visto questa sera
la luna già un poco calante
nell’alone che l’ha fatta diventare più grande
e l’ha portata vicino e l’ha posata lì sopra la piazza
Otto agosto così grande
anch’essa così pronta ad abbracciare il luminoso
nulla nel suo vuoto
notturno. Quanto a te, ti accontenti della volta bassa
che ricopre i tuoi umani passi, ti arrendi
all'indolente specchiarsi di ciò che sei
in ciò che ti racchiude. Non avrai bisogno
di altro perché qui è così piccolo il mondo
che basteranno poche parole dette con indifferenza
per farti vivere e lasciare
una gialla scia, un filo che permetta il ritorno
o il ricordo almeno, una traccia come se la pietra
assorbisse di te un memento, anzi come se tu
– insensata Medusa – fossi capace di impietrire
il tuo respiro per fare
rimanere una traccia nel mondo che attraversi.
È quasi ancora piena questa sera
la luna, ma sotto i portici senti il moto delle cose
che scorre adagio e che ti sfiora
piano e sei certo che continuare a vivere è possibile
come forse non avresti creduto se fossi stato solo
sulla piazza grande con quella grande luna
opaca a penetrarti di nulla come penetra ora
le pietre del selciato e ne disegna
i contorni neri in una fuga che non sai dove finisce.

Segnalazione di Valeriano Bottini


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