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Tesine

HENRY BERGSON E L'EVOLUZIONE CREATRICE

Nelle opere che precedono "L'evoluzione creatrice" (1907) Bergson riferisce la nozione di durata reale solamente alla coscienza, alla dimensione dello spirito in opposizione alla materia. È a questo punto che Bergson si chiede se si possa estendere la durata a tutta la realtà: la risposta cui approda è "sì". Ne "L'evoluzione creatrice" ammette che questa operazione si è rivelata ardua per quel che riguarda il mondo inorganico. In questo "microcosmo", infatti, la materia risulta costituita da singoli corpi isolati gli uni dagli altri che non presentano nessuna forma di mutamento interno: il cambiamento sembra dover essere spiegato meccanicisticamente come la semplice interazione di elementi (atomi, molecole, elettroni) che in sè rimangono immutabili. Non si deve però dimenticare, continua il filosofo, che la frantumazione della realtà inorganica in una pluralità di "sistemi isolati" che dipendono gli uni dagli altri é una chiara conseguenza del modo "scientifico" e intellettuale dell'uomo positivista di rappresentare il mondo. Se, infatti,

"…voglio prepararmi un bicchiere d'acqua zuccherata, c'è poco da fare, debbo attendere che lo zucchero si sciolga. Questo piccolo fatto è gravido di insegnamenti. Perché il tempo che debbo attendere non è più quel tempo matematico che si applicherebbe altrettanto bene all'intera storia del mondo materiale, anche qualora fosse dispiegato immediatamente nello spazio. Esso coincide con la mia impazienza, ovvero con una certa porzione della mia durata stessa, che non è allungabile o accorciabile a piacere. Non è più del pensato, è del vissuto. Non è più una relazione, è qualcosa di assoluto. Questo che cosa vuol dire se non che il bicchiere d'acqua, lo zucchero e il processo di scioglimento dello zucchero nell'acqua sono senza dubbio delle astrazioni e che il Tutto, in cui sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intelletto, progredisce forse nello stesso modo di una coscienza?"

si interpreta il più piccolo avvenimento fisico, come quello dell'esempio, non con gli occhi della scienza ma con quelli della nostra esperienza personale, quindi facendo riferimento alla durata reale della coscienza, esso assumerà un significato totalmente diverso. Il processo di scioglimento dello zucchero non sarà più scandito dal tempo matematico che registra la differente relazione che si instaura tra alcuni elementi chimici, ma coinciderà con l'attesa e con l'impazienza di chi aspetta, ossia verrà inglobato all'interno della pura durata della coscienza. Se già nel mondo inorganico ci sono indizi per ammettere la possibilità di una durata della realtà in generale, questa supposizione si fa ancora più forte passando al mondo organico: é senz'altro vero che anche qui si assiste alla concentrazione della materia organica in individui singoli e distinti, ma è anche vero che questa "tendenza all'individuazione" é controbilanciata da un altrettanto forte "tendenza alla riproduzione", che porta l'organismo oltre l'individualità stabilendo un elemento di continuità tra le generazioni. Lo stesso singolo individuo non é più, come appare almeno esteriormente nel corpo inorganico, una realtà immobile, statica ed immutabile, ma un essere dinamico, che cresce, si trasforma e invecchia, vivendo un processo di sviluppo continuo molto simile a quello della coscienza. Ecco, quindi, che il principio della durata sembra estendibile all'intera realtà, considerata come un unico Tutto. Proprio come la singola coscienza, anche l'universo dura.

Questo permette a Bergson di considerare in una chiave non deterministica e meccanicistica, ma espressamente spiritualistica, il pilastro fondamentale del positivismo: il principio dell'evoluzione. Alla base del Tutto c'è, secondo il filosofo, uno slancio vitale (élan vital) che spinge in avanti la materia verso realizzazioni più complesse. Questo slancio si espande a raggiera sviluppandosi in una miriade di direzioni, non in tutte, però, con la medesima forza e la stessa abilità creatrice. È proprio così che si spiega la diversità tra mondo vegetale e mondo animale: all'interno di quest'ultimo una diramazione meno forte dello slancio vitale ha portato alle specie degli echinodermi e dei molluschi, ancora chiusi in una sorta di corazza che limita i loro movimenti e la loro espansione vitale, mentre un'altra più potente ha condotto alla formazione degli artropodi e dei vertebrati, in cui la vita universale si realizza in modo diverso, più articolato e complesso. Le diverse specie animali corrispondono, così, a differenti diramazioni dell'unica vita che sorregge l'universo: per questo si possono ravvisare analogie morfologiche anche tra gli animali che si collocano ai gradi più bassi della scala biologica e quelli che hanno conseguito le realizzazioni più alte. Di fronte a questa interpretazione vitalistica dell'evoluzione, le opposte concezioni del meccanicismo e del finalismo perdono di significato. Tanto il primo quanto il secondo presuppongono una realtà già data, in cui sono contenuti tutti gli sviluppi futuri. Non é importante poi se questa realtà è concepita come un insieme di particelle e di atomi che si combinano tra loro secondo leggi causali necessarie, sortendo come effetto le diverse formazioni naturali (come nel meccanicismo), o se viene concepita come risultato di un disegno originario già preesistente allo sviluppo cosmologico e biologico (come vuole il finalismo). In verità, l'evoluzione implica l'idea che non esista nessuna realtà data, ma soltanto una "realtà in movimento" (la vita in movimento, lo slancio vitale) che si genera da sé stessa, espandendosi e modificandosi di continuo. Inoltre, sia il meccanicismo sia il finalismo partono dal presupposto che la realtà naturale sia il risultato della composizione di una pluralità infinita di parti distinte.

Essi divergono esclusivamente nello scegliere i criteri che hanno presieduto a quest'opera di composizione: complicatissime leggi naturali per il meccanicismo e volontà intelligente per il finalismo. Invece, secondo Bergson, la vita che sta alla base dell'evoluzione é una sola: anche le più complesse realizzazioni del mondo animale sono determinate da quest'unica vita, e non sono il risultato della combinazione di una miriade di parti preesistenti. La critica al meccanicismo e al finalismo ha un'importante conseguenza: Bergson non può fare distinzione tra una materia che viene plasmata e una o più forze formatrici che la trasformano. A maggior ragione non vi sono cose create o un loro creatore; la realtà é sempre una sola, sia che la si consideri sotto forma di slancio vitale che sta alla base dell'evoluzione, sia che si considerino i singoli risultati del processo meccanicistico: essa si fa da sola perché è contemporaneamente sviluppo, movimento, divenire, durata. L'evoluzione é, insieme, soggetto e oggetto di se stessa, é evoluzione che dà a se stessa la propria materia, é "evoluzione creatrice". Bergson parla della materia bruta come ciò che oppone resistenza allo slancio vitale, facendo sì che esso proceda più o meno a lungo nella sua traiettoria di espansione. Questa resistenza, però, non va intesa come un ostacolo esterno, urtando contro il quale la vita universale si ferma e arresta il proprio cammino, quanto piuttosto come il limite interno alla forza stessa o, più precisamente, alle diverse diramazioni in cui lo slancio vitale si divide. Più che di una materia opposta alla vita, é bene parlare di una materializzazione della vita stessa, che si realizza nel momento in cui una certa branca dello slancio vitale esaurisce le sue forze e, ormai incapace di andare oltre, ricade su sé stessa. Nello stesso modo, le diverse scintille di un fuoco d'artificio, espressione di un unico slancio verso l'alto, si arrestano a diverse altezze e, fermandosi, ricadono verso il basso e cambiano la loro natura da forza viva in materia pesante. In questa prospettiva, la materia stessa si risolve nell'unica realtà dello slancio vitale, perdendo così ogni autonomia. Nell'"Evoluzione creatrice", quindi, la materia si risolve in una manifestazione dello spirito.

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