Astronomia
Avvenimenti
ALH84001. Storia di un meteorite incompreso
di Davide Sacquegna
Prologo
ALH84001 è un sasso marziano, grande quanto un pugno e
a forma di patata. Esso però non riposa serenamente sul
suolo del suo pianeta, come potremmo aspettarci, ma giace
da vent'anni in un asettico laboratorio del Johnson Space
Center di Houston.
La sua triste storia cominciò 4,6 miliardi di anni fa,
quando la roccia che lo compone si formò insieme al resto
della crosta del pianeta Marte e a tutto il sistema solare,
Terra compresa: lì il nostro AL (lo chiameremo d'ora in
poi così, per simpatia e per umana compassione) rimase
per ben quattro miliardi e mezzo di anni, finché, 15 milioni
di anni fa, un grosso asteroide decise di precipitare
sul pianeta rosso, scagliando AL, ad una velocità cinque
volte superiore a quella di un proiettile, fuori dalla
gravità marziana. Per 15 milioni di anni la nostra patata
vagò nel sistema solare, ancora ignara del suo destino,
fino a quando, 13.000 anni fa, fu catturata (ahimè) dalla
gravità terrestre e cadde nell'Antartide. Non che lì stesse
male, dopo tutto: riposava tranquillo nei ghiacci polari,
al riparo dalle intemperie, né soffriva il freddo, visto
che era abituato ad un clima marziano ben più rigido di
quello dei nostri poli.
Fu solo nel 1984 che la specie umana decise di fare irruzione
nella vita di AL, sconvolgendola per sempre. Nel Natale
di quell'anno, infatti, una spedizione di temerari ricercatori
del JSC (un centro creato dalla NASA per raccogliere e
studiare i meteoriti), si portò a casa dall'Antartide
una quantità di sassi di ogni specie, tutti caduti laggiù
dalle profondità dello spazio. Sedici di questi sassi
furono ben presto identificati come meteoriti marziani,
dato che i gas in essi intrappolati erano gli stessi che
compongono l'atmosfera di Marte, come ci ha svelato la
sonda Viking nel 1976. Di questi sedici amici marziani
AL era il più vecchio ed attrasse subito le morbose attenzioni
degli scienziati per alcune sue caratteristiche peculiari.
Lo rinchiusero in una cella sterile, gli affibbiarono
un'orribile sigla (a proposito, che vuol dire il suo nome?
AL sta per "Allen Hills", le colline su cui fu rinvenuto,
84 è l'anno di ritrovamento, e 001 vuol dire che è il
primo dei meteoriti analizzati quell'anno) e cominciarono
a sottoporlo ad una quantità di atroci torture. Ma il
peggio doveva ancora venire…
La scoperta:
c'è vita lì dentro!
Dopo dodici anni di ingiusta reclusione, AL fu condannato
alla pena più temuta: finì tagliato in due ed esaminato
fin nelle sue più intime pieghe mediante un modernissimo
microscopio a scansione elettronica. Il team che condusse
la ricerca era guidato dal dott. McKay, esperto mineralogista,
coadiuvato dall'astrobiologa Thomas-Keprta e dal chimico
Zare, dell'università di Stanford.
Il 7 agosto del '96 essi presentarono al mondo, in una
storica conferenza stampa, preceduta nientedimenoché
da un discorso del presidente Clinton, il loro sconvolgente
verdetto: AL nasconde al suo interno tracce di attività
biologica e perfino (possibili) residui fossili di minuscoli
batteri vissuti sul pianeta rosso miliardi di anni fa.
Da quel momento la povera patata marziana è
divenuta una vera star internazionale: da sette anni
ormai le più autorevoli riviste scientifiche parlano
incessantemente di lei e gli esperti di tutto il mondo
si accapigliano per affermare le tesi più disparate:
una matassa di prove e controprove che col tempo si
imbriglia sempre più intorno ad un sasso colpevole solo
di essere caduto sul pianeta sbagliato. Ma vediamo un
po' quali sono le imputazioni a suo carico, secondo
il team del JSC, e le relative controimputazioni avanzate
da altri scienziati.
I globuli
di carbonato e la lavatrice
McKay e i suoi amici hanno scoperto innanzitutto che
le microfratture presenti all'interno di AL (causate
probabilmente dall'impatto di meteoriti sul suolo marziano
nelle vicinanze del luogo in cui AL giaceva) sono "farcite",
ovvero ripiene di particolari composti del carbonio
(i carbonati) condensati in minuscoli globuli. Ora,
i carbonati sono molti diffusi in natura (anche nello
spazio) e la loro presenza non implica necessariamente
una origine biologica, ma gli studiosi di Houston hanno
dimostrato che la composizione di questi carbonati rende
molto probabile che essi siano stati sì depositati dall'acqua
penetrata nelle fessure della roccia (fenomeno puramente
chimico), ma con la mediazione di agenti batterici che,
com'è noto, producono appunto tali carbonati quando
metabolizzano particolari minerali.
C'è da dire, a questo punto, che secondo McKay e company
i carbonati risultano essersi formati nelle fessure
di AL circa 3,8 miliardi di anni fa, cioè meno di un
miliardo di anni dopo la nascita del sistema solare;
le prime critiche dal mondo scientifico vennero infatti
da coloro che sostenevano l'impossibilità che la vita
si sia originata così presto. Alla fine del 1996, però,
un gruppo di ricercatori dell'Università della California
dimostrò che le prime tracce di vita terrestre risalgono
proprio a quel periodo, e quindi niente vieta che anche
l'ipotetica vita marziana sia nata allora.
Un altro problema riguarda la temperatura alla quale
è avvenuto il processo di deposizione dei carbonati:
se infatti la loro origine è biologica, il fattaccio
dev'essere accaduto "a freddo", dato che i batteri non
potrebbero vivere a temperature superiori a una certa
soglia, né l'acqua potrebbe esistere allo stato liquido
sopra i 100°C.
La prima forte critica allo studio di McKay giunse da
due studiosi dell'università del Tennessee, Harvey e
McSween sulla base di un'analisi della composizione
chimica dei carbonati: secondo questi due scienziati,
la presenza di Calcite e Dolomite nei globuli dimostrerebbe
che essi si sono formati grazie alla carbonatazione
del pirosseno prodotta da altissime temperature (più
di 650 gradi), forse generate da impatti di meteoriti.
Insomma, Harvey e McSween immaginavano per AL un "lavaggio
a secco" ad alte temperature, rendendo superflui non
solo i batteri, ma anche l'acqua.
Ma McKay non era certo tipo da darsi per vinto, e replicò
subito affermando che AL subì invece un trattamento
a freddo e con intervento dell'acqua (come i capi delicati
in lavatrice, per mantenere la nostra metafora). In
suo sostegno intervennero due studi. Il primo, firmato
dal dottor Romanek dell'università del Wisconsin, dimostrò
la presenza dell'isotopo 18 dell'ossigeno in percentuali
maggiori al centro di AL e minori in periferia: questa
caratteristica è spiegabile solo se il carbonato fu
depositato nelle fessure a bassa temperatura. Il secondo
studio, frutto dell'ingegno del dott. Kirschvink del
Caltech, dimostrò che due particolari frammenti di pirrotite
immersi nel carbonato hanno orientazione magnetica diversa
tra loro: questo significa che il magma in cui essi
nuotavano si consolidò in momenti diversi, e quindi
ciascun frammento conservò l'orientazione magnetica
del momento in cui la roccia si era fusa. Se la deposizione
dei carbonati fosse avvenuta a caldo, la fusione e successiva
solidificazione del magma avrebbe prodotto una orientazione
identica per tutti i frammenti. Per inciso, lo studio
di Kirschvink è importante anche perché dimostra come
al tempo in cui AL subì la penetrazione di questi frammenti
(circa 4 miliardi di anni fa), Marte doveva avere un
campo magnetico tanto forte da indurre i frammenti di
pirrotite ad orientarsi nella direzione del nord magnetico.
Un altro capitolo nella controversia dei carbonati fu
scritto dal dott. Golden e dai suoi collaboratori del
Lunar and Planetary Institute nel 1998: essi riuscirono
a ricreare in laboratorio dei carbonati molto simili
a quelli di AL usando processi chimici, dimostrando
quindi che anche i globuli di AL potrebbero avere avuto
un'origine chimica anziché biologica.
Nel 2002, infine, alcuni ricercatori dell'università
di Amsterdam, osservando con lo spettroscopio due nebulose
planetarie (NGC6302 and NGC6537), scovarono in esse
dei carbonati dello stesso tipo di quelli di AL. La
loro ipotesi fu quindi quella che i globuli si siano
formati in AL durante il sua odissea nello spazio prima
dell'approdo in Antartide.
La questione dei carbonati, insomma, rimane aperta ad
ogni soluzione e, come vedremo, non è la sola.
I PAH e il
loro esotico aroma
La seconda prova addotta dai ricercatori del JSC in
favore dell'origine biologica dei globuli di carbonato
è che, nei pressi di tali globuli, sono state rinvenute
tracce di idrocarburi aromatici policiclici (PAH, per
gli amanti degli acronimi). Gli idrocarburi aromatici
sono sostanze largamente presenti sulla Terra, e si
distinguono tra idrocarburi prodotti da decomposizione
di micoorganismi ed idrocarburi prodotti dalla stupidità
umana, ovvero dall'inquinamento atmosferico causato
dagli scarichi delle automobili e da quelli industriali:
essi costituiscono infatti il residuo dell'imperfetta
combustione dei carburanti fossili (benzina e simili).
Al team del JSC spettò quindi innanzitutto l'incombenza
di dimostrare che non si trattava di sostanze assorbite
da AL durante la permanenza terrestre. Le loro argomentazioni
in proposito sono così riassumibili:
1) i PAH presenti sulla terra contengono forti percentuali
di dibenzotiofene e presentano una forte alchilazione;
tali caratteri non sono presenti nei PAH del meteorite;
2) la formazione di PAH durante la permanenza terrestre
dovrebbe aver causato la loro concentrazione in superficie,
mentre risultano essere più concentrati verso il cuore
del meteorite, e questo dimostra che sono PAH extraterrestri.
Superata questa prova, i ricercatori di Houston passarono
a dimostrare che i PAH presenti in AL non sono di provenienza
stellare o interplanetaria: i PAH stellari, infatti,
sono soprattutto condriti, mentre quelli contenuti da
AL somigliano solo a un tipo di condrite (detto CM2)
che però nel materiale stellare è ricco di naftalina,
che invece manca nel meteorite.
Infine, essi affrontarono la prova più difficile, cioè
dimostrare che gli idrocarburi di AL sono di origine
biologica. Ancora una volta, i nostri scienziati se
la cavarono egregiamente con la seguente argomentazione:
sulla Terra, i processi di diagenesi di microorganismi
producono una serie ristretta di varietà dei PAH, proprio
come si registra nel meteorite. Veniva così a cadere
la critica di chi negava l'origine biologica dei PAH
del meteorite a causa della loro scarsa varietà. Infatti,
a differenza di quanto sostenuto dai detrattori della
tesi "biologica", i ricercatori del JSC dimostrarono
che se si fosse riscontrata una maggiore varietà di
idrocarburi, allora sarebbe stata più probabile la loro
origine non biologica.
Anche in questo caso sui poveri scienziati houstoniani
cadde una pioggia di critiche, nonostante le forti argomentazioni
da loro addotte. Il primo ad avanzare dubbi sull'origine
biologica dei nostri PAH fu Allan H. Treiman, del Lunar
and Planetary Institute, secondo il quale l'origine
degli idrocarburi in AL potrebbe essere stata non una
attività biologica, ma una "chimica organica prebiotica";
a consolazione del team guidato da McKay, però, egli
aggiunse che la scoperta di una chimica organica prebiotica
su Marte era quasi altrettanto eccitante della scoperta
della vita.
Una delle ultime e più serie critiche venne invece nel
2000 dagli scienziati Zolotov e Shock sulla rivista
Meteoritics and Planetary Science. Essi dimostrarono
che, se si ipotizza che dopo la formazione dei carbonati
AL abbia subito dei forti shock termici (per esempio
impatti meteorici), allora i PAH potrebbero essersi
formati a causa della decomposizione dei globuli di
carbonati e conseguente produzione di magnetiti e di
un gas ricco di monossido di carbonio e idrogeno, la
cui reazione avrebbe innescato un processo di catalisi
producendo appunto gli ormai famosi PAH.
Ancora una volta, tante ipotesi, tutte ugualmente plausibili,
si sono alternate senza che si sia giunti (finora) a
nessuna conclusione certa. Ma andiamo avanti…
I cristalli
di magnetite e i batteri con la bussola
La presenza di cristalli di magnetite nei pressi dei
globuli di carbonato fu rilevata dai ricercatori del
JSC già nel 1996, ma a questa scoperta non fu dato moltissimo
risalto, finché, cinque anni dopo, la testardaggine
di una donna (guarda un po'…) non fu premiata con il
raggiungimento di un risultato che riportò AL agli onori
delle cronache: l'astrobiologa Katie Thomas-Keprta,
della Lockheed-Martin Corporation, infatti, in seguito
a minuziosissimi studi condotti su tali cristalli, dimostrò
che le caratteristiche di alcuni di essi sono identiche
a quelle dei cristalli di magnetite prodotti da alcuni
batteri (chiamati MV-1 o anche "batteri magnetotattici")
che vivono sul fondo dei laghi. Questi ultimi possono
essere considerati i veri inventori della bussola: essi
infatti si orientano nello spazio sfruttando i cristalli
di magnetite per individuare il nord magnetico. La somiglianza
dei cristalli di AL con quelli prodotti dai batteri
MV-1 è tale che, secondo la dott.ssa Thomas-Keprta,
se venissero mischiati sarebbe impossibile separarli.
Dopo la pubblicazione del suo studio, la Thomas-Keprta
fu criticata da Peter Buseck dell'Arizona State University,
poiché, secondo un esame da lui condotto al microscopio
elettronico, la morfologia dei cristalli di AL è sostanzialmente
diversa da quella dei cristalli prodotti dai batteri.
In realtà, Buseck non aveva esaminato direttamente né
i cristalli di AL né quelli dei batteri MV-1, ma solo
un'altra specie di cristalli di origine biologica, quindi
il suo attacco fu presto accantonato per il suo scarso
rigore scientifico.
Una critica più seria venne invece da John Bradley,
del Georgia Technical School of Materials and Technology
(uno dei più agguerriti oppositori del team del JSC
fin dal '96), il quale fece notare che, pur essendo
evidente il legame tra i cristalli di AL e quelli dei
batteri MV-1, questo non basta a dimostrare che tali
cristalli non possano avere un'origine chimica: insomma,
si è dimostrato che essi "possono" essere di origine
biologica, ma non che "non possono" essere di origine
chimica. La risposta a questa critica è arrivata nell'agosto
2002, al termine di un ulteriore studio condotto dalla
Thomas-Keprta sulla base di criteri di biogenicità della
magnetite (MAB), messi a punto di recente e ritenuti
quasi infallibili: l'esame dei cristalli ha rivelato
una notevole rispondenza delle magnetiti di AL a tali
criteri, rafforzando quindi la tesi della loro origine
biologica.
I batteri
nani e i loro antenati marziani
Uno dei documenti presentati dal team del JSC che più
ha colpito il grande pubblico è sicuramente la fotografia
di un frammento di AL ingrandito al microscopio elettronico,
su cui si nota in primo piano la sagoma di un vermicello
simile a un millepiedi (solo un po' più piccolo, essendo
lungo appena qualche milionesimo di millimetro). L'affermazione
che questa ed altre formazioni simili a microrganismi
osservate in AL siano davvero fossili di batteri marziani,
fu sicuramente la più eclatante tra le dichiarazioni
dei ricercatori di Houston, ed anche, ovviamente, quella
criticata più aspramente.
Nel dicembre del '97 tre nostre vecchie conoscenze,
cioè Bradley, McSween e Harvey, pubblicarono un articolo
in cui cercarono di dimostrare che i presunti batteri
fossili di AL erano in realtà "artefatti", cioè formazioni
prodotte sulla superficie dei frammenti dalle lavorazioni
a cui erano stati sottoposti prima della scansione elettronica.
McKay, allora, sottopose allo stesso trattamento alcuni
campioni di roccia lunare, dimostrando che esso non
produceva nessun artefatto.
Un'altra tesi avanzata da Bradley, McSween e Harvey
fu che i presunti batteri fossili fossero in realtà
lamelle di magnetite. Infatti, riesaminando il minerale
con tecniche diverse, essi ritrovarono alcune formazioni
simili a microrganismi, ma bastò cambiare l'angolo di
osservazione per verificare che esse erano parti della
superficie stessa del minerale. McKay, ovviamente, non
si diede per vinto e replicò dimostrando che le lamelle
osservate da Bradley erano molto più piccole e più regolari
dei suoi batteri fossili, e per di più disposte parallelamente,
mentre i batteri fossili non lo erano: insomma si trattava
di formazioni completamente diverse e quindi non paragonabili.
Un altro punto debole della tesi dei batteri fossili
è quello delle loro dimensioni: W. Schopf, dell'Università
della California, notò infatti che nessun microfossile
terrestre è così piccolo e risulta improbabile che strutture
cellulari possano essere contenute in uno spazio così
ristretto. Ma la risposta a questa critica era in realtà
già pronta dal 1990, quando gli studiosi dell'Università
del Texas avevano individuato dei probabili resti fossili
di nanobatteri terrestri (che non sono batteri affetti
da nanismo, bensì organismi grandi da qualche decina
a qualche centinaio di nanometri, cioè milionesimi di
millimetro: le stesse dimensioni dei fossili di AL).
La reale esistenza dei nanobatteri non è in realtà sicura,
ma rimane comunque probabile.
In attesa che nuove tecnologie ci permettano di scandagliare
nelle più remote intimità dei nanofossili marziani per
individuarne eventuali strutture cellulari, dobbiamo
limitarci a constatare che i nanobatteri di AL hanno
finora avuto la meglio nella strenua difesa della loro
privacy, contro ogni nostro impertinente tentativo di
violarla.
Conclusioni
Il calvario del povero AL sembra destinato a continuare
per molto ancora, almeno finché il primo uomo non sbarcherà
su Marte e riporterà a terra nuovi campioni di roccia
da analizzare. Intanto, da tutta questa storia possiamo
trarre qualche utile osservazione.
La prima è che agli
scienziati, come a tutte le categorie umane, piace da
matti fare polemica. La seconda è che le cosiddette
scienze esatte non sono sempre tali, e ciò dovrebbe
indurre gli studiosi a compiere un atto di umiltà, accettando
l'idea di non poter giungere a conclusioni certe se
non si dispone (ancora) di strumenti abbastanza sofisticati
per raggiungerle. La terza è che i meteoriti marziani
hanno ancora tantissimi segreti da rivelarci sul pianeta
rosso, se solo noi avremo la pazienza e il buon senso
di osservarli in modo obiettivo. La quarta è che la
presenza di forme di vita fuori dal pianeta Terra non
è un'invenzione della fantascienza, ma una possibilità
da considerare con attenzione e serietà (è per questo
che è nata l'astrobiologia), senza lasciarsi frenare
o fuorviare da pregiudizi di sorta.
Un ultimo doveroso ringraziamento non può che essere
rivolto a lui, il piccolo grande sasso marziano il cui
travagliato destino sembra essere stato scritto per
portare agli uomini un messaggio che essi devono ancora
interpretare, oppure semplicemente per mostrare loro
la bellezza e semplicità dell'Universo attraverso la
complessità delle sue manifestazioni. Per tutto questo,
concludiamo con un cordiale e affettuosissimo "Grazie
AL!".
Davide
Sacquegna
|
Fonti
www-curator.jsc.nasa.gov
www.lpi.usra.edu
gwtradate.tread.it/tradate/gat
news.bbc.co.uk/1/hi/sci/tech
www.marsnews.com
www.spaceref.com
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