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Cognizioni

VOLTAIRE
( Francois Marie Arouet 1694 - 1778)
MICROMEGAS
Viaggio di un abitante del mondo di Sirio al pianeta Saturno.

In uno dei pianeti che girano intorno alla stella che si chiama Sirio, c'era un giovane molto intelligente, che ho avuto l'onore di conoscere durante il recente viaggio che ha fatto nel nostro piccolo formicaio. Si chiamava Micromega, nome perfettamente adatto a tutte le persone grandi. Era alto otto leghe, voglio dire ventiquattromila passi geometrici di cinque piedi ciascuno.

I matematici, persone sempre utili al pubblico, afferreranno subito la penna e troveranno che poiché il signor Micromega, abitante del paese di Sirio, ha dalla testa ai piedi 24.000 passi che sono 120.000 piedi reali, mentre noi cittadini della terra non siamo che 5 piedi, e dato che il nostro globo ha 9000 leghe di circonferenza, troveranno, dico, che per forza il globo che l'ha prodotto deve avere esattamente una circonferenza 21 milioni 600.000 volte più grande della nostra piccola terra. Non v'è in natura cosa più semplice e più normale. Gli Stati di alcuni sovrani tedeschi ed italiani, che si possono girare in mezz'ora, confrontati all'impero di Turchia, di Russia o di Cina, danno una debole idea delle enormi differenze che la natura ha messo fra l'uno e l'altro essere.

Poiché Sua Eccellenza ha la statura che ho detto, tutti gli scultori e i pittori ammetteranno senza fatica che egli deve avere 50.000 piedi di giro di vita: è una bella dimensione.

Caduto in disgrazia presso il muftì del suo paese, è a lungo sotto processo e poi bandito dalla corte.

Non fu molto afflitto di venir bandito da una corte che era piena soltanto di seccature e di piccinerie. Fece una canzonetta molto divertente contro il muftì, che non se ne curò affatto; e si mise a viaggiare da pianeta a pianeta, per finir di educarsi «lo spirito e il cuore», come si dice. Quelli che non viaggiano che in diligenza o in berlina si meraviglieranno dei mezzi di trasporto che usano lassù, perché noi, su questo piccolo mucchio di fango, non riusciamo a immaginare nulla che sia diverso dai nostri costumi. Ma il nostro viaggiatore conosceva a fondo le leggi della gravitazione e tutte le forze attrattive e repulsive; e se ne serviva così abilmente che ora per mezzo d'un raggio di sole, ora col mezzo comodo d'una cometa, andava da globo a globo, lui e tutto il suo seguito, come un uccello svolazza di ramo in ramo. Percorse in poco tempo la Via Lattea: e sono obbligato a confessare che non riuscì mai a vedere, attraverso le stelle di cui essa è disseminata, quel bel cielo empireo che l'illustre vicario Derham si vanta di aver visto col suo cannocchiale. Non che io pretenda che il signor Derham abbia visto male, me ne guardo bene! Ma Micromega era sul posto, è buon osservatore: e non voglio contraddire nessuno.

Micromega, dopo aver ben girato, arrivò sul globo di Saturno. Per quanto fosse abituato a veder cose strane, alla prima non poté far a meno, vedendo la piccolezza di quel globo e dei suoi abitanti, di abbozzare quel sorriso di superiorità che sfugge talvolta anche ai più saggi. Perché in fondo Saturno è solo novecento volte più grande della Terra, e i cittadini di quel paese sono nanerottoli i quali non hanno che circa mille tese di statura

Si lega di amicizia con il Segretario di Saturno col quale scambia molte considerazioni sulla varietà della vita, sulla quantità di sensi che gli abitanti di un pianeta hanno, sulla durata, sempre considerata troppo breve, dell'esistenza. Cominciano un viaggio filosofico

Intanto i nostri due curiosi partirono; saltarono dapprima sull'anello di Saturno, che trovarono assai piatto, come molto acutamente ha indovinato un abitante del nostro globo; da lì andarono di luna in luna. Una cometa transitava proprio accanto all'ultima di esse; i nostri vi si lanciarono insieme ai loro domestici e ai loro strumenti. Quando ebbero fatto circa centocinquanta milioni di leghe, incontrarono i satelliti di Giove. Scesero su Giove e vi passarono un anno, durante il quale appresero alcuni bei segreti che sarebbero attualmente già passati alle stampe se non ci fossero i signori inquisitori, che hanno trovato qualche proposizione un po' indigesta. Ma io ho letto il manoscritto nella biblioteca dell'illustre arcivescovo di..., che mi ha lasciato vedere i suoi libri con quella generosità e con quella bontà che non sarà mai lodata abbastanza.

Ma torniamo ai nostri viaggiatori. Partiti da Giove attraversarono uno spazio di circa cento milioni di leghe, costeggiarono il pianeta Marte che, come tutti sanno, è cinque volte più piccolo del nostro piccolo globo; videro due lune che fanno da satelliti a questo pianeta e che sono sfuggite agli sguardi degli astronomi. So bene che il reverendo padre Castel scriverà, e anche in modo assai elegante, contro l'esistenza di queste due lune; ma io mi rivolgo a quelli che ragionano per analogia. Questi buoni filosofi sanno quanto sarebbe difficile che Marte, che è così lontano dal sole, potesse fare a meno di due lune. Comunque sia, i nostri trovarono il posto così piccolo che temettero di non trovarvi da dormire, e andarono oltre come due viaggiatori che disdegnano una cattiva locanda di villaggio e si spingono fino alla città più vicina. Ma il Siriano e il suo compagno se ne pentirono presto. Camminarono a lungo senza trovare nulla. Alla fine scorsero un lumicino; era la terra: roba da far pena a gente che veniva da Giove. Tuttavia, per paura di doversi pentire per la seconda volta, risolsero di sbarcare. Passarono sulla coda della cometa e, trovando un'aurora boreale pronta, ci entrarono dentro, e arrivarono sulla terra dal bordo settentrionale del mar Baltico, il cinque luglio millesettecentotrentasette, nuovo stile

Fanno in 36 ore il giro del mondo, bagnandosi appena nell'Oceano, e non trovano sulla terra traccia di vita, nonostante la ricerca approfondita in ogni angolo.

Il nano, che a volte correva troppo nel giudicare, concluse a bella prima che sulla Terra non c'era nessuno, anzitutto perché non aveva visto nessuno. Micromega gli fece capire, educatamente, che non era un bel modo di giudicare, perché, diceva, «voi non vedete, coi vostri piccoli occhi, certe stelle di cinquantesima grandezza che io vedo molto chiaramente: concludete perciò che quelle stelle non esistono?»

Un piccolo incidente alla collana costringe Micromega a chinarsi e a scorgere nell'acqua una balena, e quindi, attaverso i diamanti che fanno da lente, si scorgono finalmente i terrestri, anzi, una nave piena di terrestri: alcuni filosofi reduci dalle terre polari.

Micromega, osservatore ben più abile del nano, vide chiaramente che quegli atomi parlavan fra loro, e lo fece notare al suo compagno il quale, vergognandosi di essersi sbagliato sulla generazione, non volle credere che simili esseri potessero comunicarsi idee. Egli aveva il dono di capire tutti i linguaggi come l'aveva il Siriano; non sentiva parlare questi atomi, e quindi supponeva che non parlassero. D'altronde, come mai quegli esseri appena visibili avrebbero avuto gli organi della voce, e che cosa potevano avere da dirsi? Per poter parlare, è necessario pensare, o qualcosa del genere; ma se avessero pensato, avrebbero dovuto avere un'anima proporzionata alla loro razza, e questo gli sembrava assurdo.

Costruito un megafono con un'unghia del pollice, possono finalmente udire la voce dei terrestri.

«O atomi intelligenti, nei quali l'Eterno ha voluto rivelare la Sua abilità e la Sua potenza, voi godrete certamente gioie purissime sul vostro globo, perché avendo così poca materia e sembrando tutto pensiero, dovete passare la vita ad amare e a pensare: è la vera vita dello spirito. Da nessuna parte ho trovato la vera felicità: senza dubbio essa è quaggiù.»

A questo discorso tutti gli scienziati si misero a scuoter la testa, e uno di essi, più sincero degli altri, confessò in buona fede che eccettuati pochi abitanti ben poco rispettati, tutto il resto è una congrega di pazzi, di malvagi e di sventurati.

«Noi abbiamo più materia che non occorra,» disse, «per far molto male, se il male proviene dalla materia, e troppo spirito se il male viene dallo spirito. Non sapete, per esempio, che nel momento in cui vi parlo, vi sono centomila pazzi della nostra specie, con in testa un cappello, che ammazzano centomila altri animali che hanno in testa un turbante, o vengono massacrati da questi, e che su quasi tutta la terra, usa così da tempo immemorabile?»

Il Siriano fremette e domandò quale fosse la ragione di queste liti orribili fra animali così miserabili.

«Si tratta,» disse lo scienziato, «di qualche mucchio di fango grande come il vostro calcagno. Non che qualcuno di quei milioni d'uomini che si fanno sgozzare voglia aver diritto a un solo filo della paglia che cresce su uno di quei mucchi. Si tratta soltanto di sapere se ne sarà proprietario un certo uomo che si chiama Sultano o un altro che si chiama, non so perché, Cesare. Nessuno dei due ha mai visto, né vedrà mai, quel cantuccio di terra di cui si tratta, e quasi nessuno di quegli animali che si sgozzano l'un l'altro ha mai visto l'animale per il quale si fa sgozzare.»

«Disgraziati!» gridò il Siriano, «chi potrebbe immaginare una rabbia così insensata! Mi vien voglia di fare tre passi e di schiacciare con tre pestate tutto quel formicaio di assassini ridicoli.»

«Fatica inutile,» gli risposero; «faticano abbastanza loro per rovinarsi. Pensate che dopo dieci anni non resta mai nemmeno uno su cento di quei miserabili; pensate che, anche se non estraessero la spada, la fame, la fatica o l'intemperanza li portan via quasi tutti. E poi, non sono loro che devon esser puniti: sono quei barbari sedentari che dal fondo del loro studio ordinano, mentre stanno digerendo, il massacro d'un milione di uomini, e poi ne fanno ringraziare Iddio solennemente.»

Il viaggiatore si sentiva commosso di pietà per la piccola razza degli uomini, nella quale scopriva contrasti tanto stupefacenti.

«Poiché siete nel piccolo numero dei saggi,» disse a quei signori, «e a quanto sembra non ammazzate nessuno per denaro, ditemi, vi prego, di che cosa vi occupate.»

«Sezioniamo mosche,» disse lo scienziato, «misuriamo meridiani, accumuliamo cifre; e siamo d'accordo su due o tre argomenti che comprendiamo, ma discutiamo su due o tremila che non comprendiamo per nulla.»

Al Siriano e al Saturniano venne subito voglia di domandare a quegli atomi pensanti quali fossero le cose su cui erano d'accordo.

«Che distanza calcolate che vi sia,» disse il secondo, «dalla stella della Canicola alla grande stella dei Gemelli?»

Risposero ad una voce: «Trentadue gradi e mezzo.»

«Quanto calcolate che ci sia di qui alla luna?»

«Sessanta semidiametri della Terra in cifra tonda.»

«Quanto pesa la vostra atmosfera?»

Credeva di metterli in imbarazzo, ma gli risposero tutti quanti che l'aria pesa circa novecento volte meno d'un ugual volume dell'acqua più leggera e diciannovemila volte meno dell'oro a diciotto carati.

Il nano di Saturno, stupito dalle loro risposte, stava per credere che fossero stregoni quegli stessi esseri ai quali, un quarto d'ora prima, negava un'anima. Finalmente Micromega disse loro:

«Dato che conoscete così bene quello che è fuori di voi, conoscete certo ancor meglio quello che avete dentro. Ditemi dunque cos'è la vostra anima e come fate a formare le idee.»

Gli scienziati si misero a parlare tutti in una volta come prima, ma tutti avevano opinioni diverse. Il più vecchio citava Aristotile; un altro faceva il nome di Cartesio; questi, di Malebranche; quell'altro, di Leibniz; un altro ancora, di Locke. Un vecchio peripatetico disse ad alta voce, con sicurezza:

«L'anima è una entelechia, è una ragione per la quale essa ha la potenza di essere quello che è. Questo lo dice espressamente Aristotile, a pagina 633 dell'edizione del Louvre:

$FÇ øõ÷Þ cóôéí cíôåëc÷åéá$...

«Non capisco molto bene il greco,» disse il gigante.

«Neanch'io,» disse il vermiciattolo filosofo.

«Ma allora,» proseguì il Siriano, «perché citate questo Aristotile in greco?»

«Perché,» replicò il sapiente, «è davvero necessario citare quello che non si capisce affatto nella lingua che si capisce meno di tutte le altre.»

Il cartesiano prese la parola, dicendo:

«L'anima è un puro spirito che ha ricevuto nel seno della madre tutte le idee metafisiche, e che uscendone deve andare a scuola per imparare da capo a fondo quello che sapeva così bene e che non sa più.»

«Allora, non metteva proprio conto,» rispose l'animale di otto leghe, «che la tua anima fosse così sapiente nel seno di tua madre per essere poi così ignorante quando avresti avuto la barba. Ma che cosa intendi per spirito?»

«Ma che cosa mi domandate?» disse quel ragionatore. «Non ne ho la minima idea: dicono che non sia altro che materia.»

«Ma sai almeno che cosa sia la materia?»

«Lo so benissimo,» rispose l'uomo. «Per esempio, questa pietra è grigia e ha una certa forma, ha tre dimensioni, è pesante e divisibile.»

«Benissimo!» disse il Siriano. «Questa cosa che ti sembra divisibile, pesante e grigia, sai poi dirmi precisamente che cosa sia? Tu ne vedi alcune qualità: ma il sostrato della cosa, lo conosci?»

«No,» disse l'altro.

«Allora, tu non sai che cosa sia la materia.»

Poi, il signor Micromega, rivolgendosi ad un altro sapiente che teneva sul pollice, gli domandò che cosa fosse la sua anima e che cosa faceva.

«Non fa nulla affatto,» rispose il filosofo seguace di Malebranche. «È Dio che fa tutto per me, io vedo tutto in Lui, io faccio tutto in Lui, è Lui che fa tutto senza che io me ne occupi.»

«Allora, non mette conto di esistere,» continuò il saggio di Sirio. «E tu, amico mio,» disse a un leibniziano che si trovava là, «che cosa è la tua anima?»

«È una lancetta,» rispose il leibniziano, «che segna l'ora mentre il mio corpo batte le ore; o se lo preferite, è essa che batte le ore mentre il mio corpo segna l'ora; ovvero la mia anima è lo specchio dell'universo e il mio corpo è la cornice dello specchio: è chiarissimo!»

Un piccolo seguace di Locke era là vicino, e quando finalmente gli rivolsero la parola:

«Non so,» cominciò a dire, «come faccio a pensare, ma so che non ho mai pensato se non quando i miei sensi mettevano in azione il pensiero. Che esistano sostanze immateriali e intelligenti, non ne dubito affatto: ma dubito molto che sia impossibile a Dio dotare di pensiero la materia. Venero la potenza dell'Eterno: non sta a me limitarla. Non affermo nulla: mi accontento di credere che sono possibili più cose di quante non si pensi.»

L'animale di Sirio sorrise: gli pareva che costui non fosse il meno sapiente, e il nano di Saturno, se non fosse stata l'immensa sproporzione, avrebbe abbracciato il seguace di Locke. Ma c'era là, per disgrazia, un piccolo animaletto col berretto quadrato che interruppe tutti gli animaletti filosofi, dicendo che conosceva tutto il mistero, che la spiegazione si trovava nella Somma di San Tommaso; e poi guardò dall'alto in basso i due abitanti del cielo e rivolgendosi ad essi, sosteneva che le loro persone, i loro mondi, i loro soli, le loro stelle, tutto era fatto soltanto a pro dell'uomo. Sentendo questo discorso, i due viaggiatori si lasciarono cadere uno addosso all'altro, soffocando di quel riso inestinguibile che secondo Omero è dote degli Dei. Le loro spalle e il loro ventre ballavano di qua e di là, e nel convulso, la nave che il Siriano aveva sull'unghia cadde in una tasca delle braghe del Saturniano. Quelle due brave persone si diedero d'attorno per ritrovarla, e finalmente ripescarono l'equipaggio e lo rimisero a posto ben in ordine. Il Siriano riprese in mano i piccoli vermiciattoli, e parlò ad essi ancora con molta gentilezza, benché, in fondo al cuore, fosse un po' irritato nel vedere che gli infinitamente piccoli avevano un orgoglio infinitamente grande. Promise di scriver per loro un bel libro di filosofia, scritto in caratteri molto minuti perché potessero leggerlo, e che nel libro avrebbero trovato la spiegazione di tutto. E davvero, prima di partire, diede a loro questo volume, che venne portato a Parigi all'Accademia delle Scienze; ma quando il segretario l'aprì, trovò le pagine tutte bianche:

«Me l'immaginavo!» disse.

 

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