IL
VALORE DEL TEMPO
Quasi tutti i filosofi occidentali si sono posti il problema del tempo,
dando risposte assai diverse tra loro.
Per comodità di presentazione, potremmo distinguere tre concezioni
fondamentali:
1. il tempo oggettivo;
2. il tempo soggettivo (movimento intuito);
3. il tempo come struttura delle possibilità.
1. Il tempo oggettivo
È la concezione per cui il tempo è visto come una "realtà"
sostanziale, di cui ci si chiede se esista o meno.
In questo contesto la concezione più antica e diffusa è
quella che considera il tempo l'ordine misurabile del movimento o delle
successioni.
Aristotele (384-322 a.C.), il più grande filosofo dell'antichità,
afferma:
"Questo, in realtà, è il tempo: il numero [= misura]
del movimento secondo il prima e il poi" (Fisica, IV, 11; 219b);
fuori di esso non c'è che l'immutabile ed il necessario.
Sulla sua scia la filosofia seguente: realisti come Alberto Magno o Tommaso
d'Aquino, nominalisti come Ockham, razionalisti come Cartesio ed empiristi
come Locke e Berkeley, che pure sostituivano - per definire il tempo -
l'ordine delle idee all'ordine del movimento.
Newton (1642-1727), uno dei padri della scienza moderna, ponendo questa
concezione del tempo a fondamento della sua meccanica, afferma che il
tempo è indipendente dagli avvenimenti e antecedente ad essi, ne
sottolinea l'eterna validità e, pur distinguendo il tempo assoluto
dal tempo relativo, ad entrambi riconosce comunque ordine e uniformità:
"Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura
è senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente
ed è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è
la misura sensibile ed esterna, desunta dal movimento, di una parte qualunque
della durata, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo:
tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno, di cui ci si suol servire
in luogo del tempo vero" (Naturalis philosophiae principia mathematica,
I, def. VIII).
Egli propone dunque un tempo assoluto visto come una sorta di contenitore
all'interno del quale i corpi fisici "recitano" la loro esistenza,
eppure totalmente privo di ogni relazione con essi.
Non è difficile rilevare la difficoltà di questa posizione:
chi garantisce l'uniformità di questo eterno fluire? E chi dice,
poi, che sia eterno? È appena il caso qui di ricordare che, proprio
mentre il tempo assoluto newtoniano diventava all'inizio del XX secolo
un'evidenza collettiva, la teoria di Albert Einstein (1879-1955) sulla
relatività, dimostrando la dipendenza della misurazione del tempo
dal sistema di riferimento in cui è effettuata, ne sbriciolava
la consistenza proprio sul terreno scientifico su cui era nata (cfr. anche
quanto detto in proposito dal professor Consani la volta scorsa).
Anche il principale oppositore contemporaneo di Newton riguardo alla concezione
del tempo, Leibniz (1646-1716), rimane comunque nello stesso orizzonte
teoretico. Egli afferma che non ci può essere tempo indipendentemente
dagli avvenimenti, poiché il tempo è formato dagli avvenimenti
e dal loro rapporto e costituisce l'ordine universale della successione.
Gli istanti, fuori dalle cose, non sono niente, e non consistono in altro
che nel loro ordine successivo. Il tempo ha un'esistenza reale, in quanto
"ordine delle successioni" (Troisième lettre à
Clarke, § 4).
2. Il tempo soggettivo
La seconda concezione fondamentale del tempo è quella che lo considera
come un "vissuto", una sorta di realtà psichica sostanziale
(l'intuizione del movimento o, come lo definisce Hegel, il "divenire
intuito") o un modo di percepire i vissuti, dunque una "funzione"
del soggetto.
È in fondo lo stesso Aristotele che pone il problema quando si
domanda (sempre nella Fisica IV, 14, 223a): "Si potrebbe però
dubitare se il tempo esista o meno senza l'esistenza dell'anima. [
]
Se è vero che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto
che è nell'anima hanno la capacità di numerare, risulta
impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima". E Plotino
(205-270) afferma: " [
] il tempo è la vita dell'anima
che muovendosi passa da uno stato di vita ad un altro" (Enneadi,
III 7, 11).
Ma è a sant'Agostino (354-430) che si deve la diffusione di questa
dottrina nella filosofia occidentale. Egli si domanda:
"Che cos'è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo
so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so [...] Se futuro
è passato esistono, vorrei sapere qual è la loro sede. Se
per ora non ci riesco, so però che, ovunque siano, non vi sono
come futuro e passato, ma come presente; perché se anche là
sono come futuro o come passato, o non vi sono ancora o non vi sono più.
Quindi, ovunque siano, comunque siano, non vi sono che in forma di presente
[...] Ciò che esiste è il presente, non il futuro. Perciò
quando si dice che si vede il futuro, non si vede il futuro in se stesso,
che non esiste ancora, ma si vedono forse cause o indizi suoi, già
esistenti [...] Risulta dunque chiaro che futuro e passato non esistono,
e che impropriamente si dice "Tre sono i tempi: passato, presente
e futuro". Più esatto sarebbe dire: "Tre sono i tempi:
il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro".
Queste ultime tre forme esistono nell'anima, né vedo possibilità
altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del
presente è l'intuizione diretta, il presente del futuro è
l'attesa. [...] Se possiamo farci un'idea del tempo, solo un punto può
chiamarsi presente, quello che non si può più suddividere
in parti, per quanto piccolissime: ma anche quel punto trasvola così
rapido dal futuro al passato, da non avere estensione alcuna di durata.
Perché, se l'avesse, sarebbe divisibile in passato in futuro: il
presente non ammette estensione" (Le confessioni, libro XI, capp.
XIV-XXI).
Ecco il paradosso che Agostino ci pone davanti: cercavamo il tempo e
abbiamo trovato il suo contrario, il presente della coscienza, l'attimo
senza estensione, l'eternità. Il tempo è identificato da
Agostino nella vita stessa dell'anima che si estende per il passato e
l'avvenire (distensio animi). Infatti per lui il tempo non ha essere e
nasce nell'uomo al momento della sua creazione. L'uomo ritiene che l'essere
sia temporale perché la temporalità è il suo modo
di avvertire la realtà, modo che scaturisce appunto dalla sua imperfezione.
Ciò che l'uomo chiama passato è la realtà che non
può più modificare; ciò che chiama futuro è
la realtà che non conosce ancora. Passato e futuro derivano dunque
da una doppia incapacità della conoscenza umana: di modificare
e di conoscere.
In questo contesto il tempo diventa costitutivo del nostro essere: non
è un'entità ideale, astratta, che scorre al di fuori e al
di sopra di noi, bensì una realtà concreta che è
fatta da noi e che pertanto dipende da noi. In questa prospettiva il comune
modo di pensare viene a rovesciarsi: non è più la nostra
vita che si svolge nel tempo, ma piuttosto è il tempo che scorre
entro la nostra vita e riceve da essa le sue scansioni, la sua misura
e, in ultima analisi, il suo valore.
Nella filosofia contemporanea, è Bergson (1859-1941) l'autore che
più ha ripreso questa concezione, contrapponendola al concetto
scientifico di tempo. Secondo lui il tempo della scienza è un tempo
spazializzato (omogeneo, divisibile in parti eguali, reversibile, in cui
ogni intervallo è identico ad ogni altro) e perciò non ha
alcuno dei caratteri che la coscienza riconosce propri del tempo. Esso
viene rappresentato come una linea ma la linea è immobile, mentre
il tempo è mobilità:
"La linea è già fatta, mentre il tempo è ciò
che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa" (La
pensée et le mouvant, 19343).
Per Bergson il tempo della coscienza, la durata, ha invece una natura
diversa dal tempo spaziale: non è come una collana di perle, in
cui è indifferente quale posizione occupi ogni singola perla; è
piuttosto una valanga che, precipitando, assume sempre una forma diversa
dalla precedente conservando, nel suo continuo accrescersi, tutta la neve
che ha via via raccolto.
Posta in questi termini la riflessione filosofica sul tempo sembra giungere
ad un'antinomia irrisolubile: o il tempo è assoluto ed esiste indipendentemente
dal soggetto, ma allora noi non possiamo saperne nulla, o è relativo
alla coscienza che lo riferisce ad un sistema fisico, che dipende a sua
volta dalle sensazioni; ma quest'ultime allora non possono fornirci da
sé l'ordine della successione.
Un tentativo di uscire da questo dilemma si deve a Kant (1724-1804),
per cui il tempo è sì una condizione necessaria per il costituirsi
dell'ordine causale dei fenomeni (infatti soltanto nel tempo possiamo
rappresentarci permanenza, simultaneità e successione), ma non
deriva dalle sensazioni in quanto dato a priori: è la "forma
pura a priori della senso interno" (Critica della Ragion Pura). Il
tempo infatti non è un concetto, non è ricavabile per via
di ragionamento: è una forma pura dell'intuizione sensibile, si
dà immediatamente ed è il modo necessario nel quale noi
costituiamo in esperienza il contenuto delle sensazioni. Il tempo non
esiste dunque di per sé, come realtà assoluta, ma non per
ciò è qualcosa di irreale o immaginario: è piuttosto
una condizione interna per rappresentare un qualsiasi fenomeno.
3. Il tempo come struttura delle possibilità
La terza concezione del tempo si è fatta strada assai più
recentemente all'interno della filosofia esistenzialistica e considera
il tempo come struttura della possibilità.
Prendiamo in considerazione quanto Heidegger (1888-1976) nella sua opera
Essere e tempo (1927), che già nel titolo annuncia la profonda
interrelazione tra i due termini, ci propone.
Per lui la temporalità è determinazione costitutiva dell'esistenza
umana nel senso che è in se medesima intrinsecamente tempo. Ogni
Esserci (così viene definito ogni esistente) è tale in quanto
tendenza ad afferrare le possibilità per le quali esiste, in quanto
poter essere; in altri termini l'esistenza dell'uomo è un progettare,
ossia un anticipare possibilità, un protendersi verso il futuro:
è dunque intrinsecamente tempo. L'uomo vive esclusivamente nelle
sue possibilità, è - come dice Heidegger - un aver da essere;
il suo esistere è dunque soltanto il suo pervenire alle possibilità
che sono il suo aver da essere. Ciò significa allora che il significato
essenziale di ogni uomo è nel futuro intrinseco al suo esistere.
Avviene qui un totale capovolgimento della tradizionale prospettiva cronologica:
il futuro diventa la sorgente stessa del tempo: "[
] l'Esserci
può autenticamente esser stato solo in quanto è ad venire.
Il passato scaturisce in certo modo dall'avvenire.": se infatti l'ad
venire è un ri venire dell'esser stato, quest'ultimo trae essere
proprio dal suo venir riprogettato come ad venire. Scrive a proposito
Massimo Bontempelli: "Il futuro che scegliamo rinvia, come avvenire
che è già stato, ad un passato, il quale rinvia a sua volta
ad una situazione che, presentandosi dinanzi a noi, ci offre la traccia
del suo essere attraverso l'avvenire che ci presenta come possibilità."
(Tempo e Memoria, p. 39).
Heidegger distingue così una temporalità originaria, dalla
quale l'esistenza umana è da sempre costituita, da un tempo ordinario,
costituito dalla sequenza allora, ora, poi, che si oppongono tra loro.
Sottolinea ancora Bontempelli: "[
] la prima resta per lo più
nascosta, mentre il secondo si impone al senso comune; la prima si struttura
a partire dall'avvenire, mentre il secondo è tutto risolto nel
presente; la prima si riflette in se stessa in una radicale finitudine,
e rinchiude nella finitudine l'intera esistenza umana, mentre il secondo
si estende in una potenzialità infinita." (Ibidem, p. 40).
Malgrado che la concezione heideggeriana sia connotata dal pessimismo
radicale per cui la vita autentica è quella che vive per la morte,
la possibilità dell'impossibilità di ogni possibilità,
in quanto essa sola si sottrae a tutte le condizioni mondane, innegabile
è il suo originale contributo al dibattito sul tempo, sia per il
primato riconosciuto al futuro (mentre infatti le prime concezioni si
fondano sul primato del presente, l'autore interpreta il tempo in termini
di possibilità e di progettazione, identificandolo con l'ad venire),
sia per il mutamento dell'orizzonte modale dalla necessità alla
possibilità (il tempo viene ricondotto non più ad una struttura
necessaria, come l'ordine causale, ma alla struttura stessa della possibilità).
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