La
questione della differenza tra fotografia artistica e
fotografia scientifica era dibattuta, come ricorda Ando
Gilardi (Creatività e informazione fotografica,
in "Storia dell'Arte Italiana - grafica e immagine
II", pag. 556), già all'inizio del '900, quando
si distingueva tra fotografia "vera", cioè
che ritrarrebbe la realtà così come essa
è, e fotografica artistica, che invece tendeva,
mediante varie tecniche, ad abbellire il modello "a
tutto scapito del valore di rassomiglianza, di identificazione,
col medesimo", insomma a compiere un tradimento della
realtà. In effetti la fotografia è sempre
stata legata, più di qualunque altra forma di rappresentazione
della realtà, al concetto di fedeltà al
vero, di riproduzione realistica del modello, e di conseguenza
ha assunto un ruolo particolarmente significativo in ambito
scientifico. Come ricorda McLuhan (Understanding media,
1964), tutte le scienze trovarono in essa, per la prima
volta, un mezzo non verbale per trasmettere le informazioni,
che consentiva di superare i limiti insiti nella comunicazione
verbale, al punto che oggi neppure la fisica atomica potrebbe
fare a meno di questo mezzo. La peculiarità della
fotografia è infatti quella della "imprescindibilità
del rapporto con la realtà visibile" (Valtorta,
Il rapporto con la realtà in "D'ars"
n. 153, aprile 1998), che ha indotto molti in passato
a ritenere che la fotografia dovesse proporsi come fine
più alto la riproduzione perfetta del reale, raggiungibile
attraverso una padronanza assoluta da parte dell'autore
del mezzo tecnico (si veda Valtorta, Il retro delle immagini.
Caso e controllo in fotografia, in "Papel Alpha",
n. 4, 1999). Non solo, ma questo rapporto privilegiato
con la realtà ha meritato alla fotografia la definizione
di "messaggio senza codice", come afferma Barthes,
che, al pari di quanto faceva Baudelaire già nell'800,
"misconosce il carattere autoriale, discreto, connotato
della fotografia" (Faeta, strategie dell'occhio,
FrancoAngeli, 1998 pag. 46).
La camera oscura sembrerebbe quindi lo strumento principe
della documentazione scientifica in quanto capace di rappresentare
la realtà oggettivamente: se tale oggettività,
come afferma Faeta (cit., passim), è da rigettare
per quanto riguarda le scienze etnografiche, può
essere confermata invece nelle cosiddette scienze "esatte",
quelle cioè, come la fisica, che si propongono
di studiare i fenomeni naturali esattamente misurabili
e quantificabili. All'interno della categoria delle scienze
esatte che si servono spesso e volentieri del medium fotografico,
l'astronomia riveste sicuramente un ruolo particolare.
Una fotografia astronomica, infatti, non esaurisce il
suo ruolo nell'informazione scientifica che essa trasmette,
ma possiede un valore aggiunto, una "bellezza"
intrinseca, che le conferisce un significato ed un ruolo
che potremmo definire artistici. Sarebbe difficile, d'altra
parte, negare un'autorialità e quindi una funzione
artistica ad una fotografia, per esempio, delle Pleiadi
scattata da un astrofilo: tale riproduzione non ha infatti
nessuna funzione scientifica, in quanto non aggiunge nuove
informazioni a quelle già possedute dalla comunità
scientifica sull'oggetto rappresentato, pur rientrando
a pieno titolo nella categoria della fotografia astronomica,
e pur distinguendosi nettamente da tutti gli altri tipi
di fotografia artistica. Infatti, nella fotografia di
un soggetto umano, di un paesaggio o di un oggetto quotidiano,
scattata a fini artistici, la creatività dell'autore
interviene nella scelta di un'infinità di fattori,
quali il punto di vista, la scelta di cosa includere nel
quadro e cosa escludere, il rapporto tra i diversi piani,
le condizioni di luce etc., tutte scelte che rispondono
ai codici propri del linguaggio fotografico.
La
fotografia delle Pleiadi, per tornare al nostro esempio,
non può evidentemente fare riferimento agli stessi
codici: per limitarci ad un solo esempio, è impossibile,
in questo caso, scegliere un punto di vista (a meno che
il fotografo non voglia compiere un viaggio su un altro
sistema solare). La libertà dell'autore nella fotografia
astronomica è quindi limitata alle scelte di carattere
tecnico relative alle caratteristiche del mezzo utilizzato:
tipo di lenti, dimensioni dell'obiettivo, tipo di pellicola,
numero di ingrandimenti, tempo di esposizione etc, oltre,
ovviamente, alla scelta dell'oggetto celeste da riprendere.
Naturalmente, in questo discorso non rientrano le fotografie
di eventi eccezionali, come il passaggio di una cometa,
l'esplosione di una supernova o la collisione tra due
asteroidi, così come le fotografie di corpi celesti
realizzate nei grandi osservatori o quelle scattate dal
telescopio orbitante Hubble: in questi casi è evidente
il carattere scientifico della fotografia, in quanto essa
assolve allo scopo di fornire informazioni oggettive sull'oggetto
o sull'evento riprodotto.
Ma la peculiarità della fotografia astronomica
rispetto alle altre forme di fotografia scientifica è
rappresentata, in primo luogo, dalla sua capacità
di fotografare il passato: è noto infatti che,
quando osserviamo un corpo celeste, non lo vediamo come
esso è ora, ma come era nel momento in cui la luce
che ora raggiunge i nostri occhi partì da esso:
per esempio, se osserviamo la galassia M31 in Andromeda,
compiamo un viaggio nel tempo di circa due milioni di
anni, poiché essa dista, appunto, due milioni di
anni luce da noi.
Un caso ancora più particolare è rappresentato
dalle fotografie dello spazio profondo, per esempio quelle
immagini scattate da Hubble in cui appaiono, in un campo
ristrettissimo, centinaia di galassie, ciascuna delle
quali ha una distanza che varia dai milioni ai miliardi
di anni luce: nella stessa fotografia, quindi, troviamo
riassunta e ridotta alla contemporaneità gran parte
della storia dell'universo.
La fotografia astronomica, dunque, può essere considerata
come l'unica forma di fotografia che spezza il limite
della bidimensionalità, introducendo nella rappresentazione
il tempo, già noto dalla teoria della relatività
come la quarta dimensione del continuum spazio-temporale
in cui è immerso il nostro universo.
Davide
Sacquegna