Galileo
Galilei nacque a Pisa in Toscana il 15 febbraio 1564, e
fin dai suoi anni infantili sorprese tutti con la precocità
del suo ingegno. Meravigliava i maestri con il suo modo
franco e libero di apprezzare le cose, con la sua mente
sempre sveglia, con la sete che aveva di istruirsi. La sua
attitudine per tutto ciò che eleva l’intelligenza era prodigiosa,
amava la musica, il disegno, coltivava le belle lettere
e la poesia. Il germe del genio si sviluppava in lui a vista
d’occhio.
Suo
padre, che non era ricco, ed aveva una famiglia numerosa,
volle che il giovane Galileo si dedicasse ad una professione
lucrativa. Lo mandò all’università di Pisa perché studiasse
la medicina e la filosofia. Ma le lezioni aride di scolastica
non potevano bastare a quella mente energica, avida di novità.
Galileo non temendo di fare delle obiezioni alle dottrine
che gli si insegnavano, si distingueva già per il suo spirito
d’indipendenza e di contraddizione. La sua vocazione non
attendeva che un’occasione per manifestarsi. L’occasione
si presentò.
Galileo
aveva appena diciannove anni, quando un giorno nella cattedrale
di Pisa fu colpito dal movimento d’una lampada che dondolava
dal soffitto; osservò come, indifferentemente dalla lunghezza
degli archi descritti, le oscillazioni avessero sempre la
stessa durata. Appena osservato questo fenomeno, la sua
mente ne intravide subito le belle ed utili conseguenze.
Subito pensò come trarre partito delle oscillazioni d’un
filo sospeso ad un capo per misurare l’altezza d’un edifizio,
e a forza di prove e di studi riuscì a scoprire le leggi
del pendolo, che furono tanto utili alla scienza per la
precisa misura del tempo.
Galileo
da allora in poi si diede corpo ed anima allo studio delle
scienze; lesse con avidità gli antichi geometri; studiando
il trattato d’Archimede sui corpi che nuotano nei fluidi
immaginò e costruì una nuova bilancia idrostatica. Questi
primi lavori tanto importanti ed originali ad un tempo,
lo fecero ben presto conoscere, e nel 1589 il granduca Ferdinando
lo nominò professore di matematica a Pisa. Galileo intraprese
dall’alto della torre pendente una serie di esperimenti
sul moto dei corpi. Guidato dalla logica del fatto, che
mai non inganna, riconobbe quanto fossero false le pretese
leggi del moto ammesse nell’Università. Il suo ingegno maturava
così nel sano esercizio del libero esame dei fatti: lo studio
del moto dei corpi lo condusse a considerare il cammino
dei corpi celesti, a dirigere i suoi sguardi verso il cielo.
Si mise all’opera con ostinazione accanita. Fu questo
il suo primo passo verso la gloria, e fu anche il primo
verso la sventura.
Galileo
esaminò con perseverante attenzione i due sistemi astronomici
rivali: quello di Tolomeo, con la sua complicazione di cicli
e di circoli eccentrici; l’altro, quello di Copernico, che
per la sua semplicità e grandiosità attirava già le menti
più elette, gli osservatori più seri.
Galileo,
vistosi in breve considerato nell’Università come uomo
turbolento, colpevole di rivolta alla Bibbia, cominciò a
non sentirsi più a suo agio; e quando il Senato veneto gli
offerse una cattedra di matematica all’Università di Padova
l’accettò senza esitare. Si rimise quindi al lavoro con
la sua insuperabile energia ed attività. Dopo avere inventato
il termometro, ed avere nel 1604 scoperto una nuova stella,
nel 1609 diede all’umanità il telescopio, strumento prodigioso
che un dotto filosofo ha giustamente chiamato, il microscopio
dell’infinito. Gli era stato detto che un Olandese era riuscito,
con una combinazione di vetri, a vedere a una grande distanza;
volle verificare il fatto. Cercare per lui era trovare.
Bentosto in presenza del doge e dei dignitari della repubblica,
fra gli applausi della popolazione, poneva sul campanile
di S. Marco il primo telescopio.
Galileo
non si appagò di considerare da lungi le navi che veleggiavano
verso le lagune, ma lo
diresse subito verso gli spazi celesti: l’immensità
dei mondi gli apparve. L’astronomo drizzò il telescopio
verso la luna e riconobbe quanto erano false le idee della
sfericità perfetta e della luminosità propria di tutti i
corpi celesti. Scorse come la superficie del nostro satellite
fosse irregolare ed ondulata, attraversata da montagne,
tra le quali si estendevano delle profonde vallate. Spinse
lo sguardo nelle nebulose e nella via lattea, e s’accorse
che la formavano miriadi di soli, un polverio di stelle,
come disse Milton, suo contemporaneo. Esaminò il pianeta
Giove e scoperse i quattro astri che gli girano intorno.
Il suo spirito intuitivo gli fece comprendere subito che
quegli astri erano per Giove quello che la luna era per
la terra: dei satelliti. Osservò il sole e per primo vi
notò le macche, formidabile argomento contro la pretesa
incorruttibilità dei corpi celesti. Ognuna di quelle importanti
scoperte avvicinava Galileo al sistema di Copernico.
L’esploratore
del cielo, sorpreso delle sue stesse scoperte, assorto nei
suoi lavori, non ascoltava né le obiezioni dei suoi contradditori,
né gli avvertimenti di coloro che opponevano alle sue rivelazioni
la parola di Aristotele, della Bibbia, dei Santi Padri.
Sincero cristiano, il grande astronomo sperava conciliare
l’obbedienza al cattolicesimo con gli istinti del suo genio.
Invano gli si gridava di arrestarsi, invano gli si mostrava
la falange dei nemici che si faceva sempre più poderosa…,
il filosofo non voleva ascoltar nulla.
Galileo
viveva in un tempo in cui bastava il semplice dubbio in
cose di fede a perdere un uomo, in cui una sola parola poteva
condurlo sul rogo. E la parola eretico la pronunciarono
i suoi nemici.
Finché
Galileo visse in terra veneta, l’odio dei suoi nemici fu
impotente; ma nel 1610 abbandonò Padova per tornarsene in
Toscana. Nel 1611 si recò per la prima volta a Roma a dissipare
i sospetti, perché l’Inquisizione cominciava già a mormorare
contro di lui. Un frate domenicano, Domenico Baccini, inveì
contro Copernico e i suoi seguaci, e specialmente contro
Galileo. Il 5 marzo 1616, la Sacra Congregazione dell’Indice
proibì i libri di Copernico e di Foscarini, nei quali era
sostenuta “ la falsa dottrina della mobilità della terra
e dell’immobilità del sole, completamente contraria alla
Divina Scrittura. “ Galileo non era nominato nel decreto,
ma ricevette segretamente un’ammonizione, e per molto tempo
dovette conservare il silenzio.
Nel
1618, la comparsa
di tre comete nel cielo lo ricondusse all’astronomia, e
poco dopo al sistema di Copernico ed alla rotazione della
terra. Nel 1630 scrisse il suo celebre Dialogo, nel
quale si serve d’un artificio alquanto trasparente, per
trattare l’argomento interdetto.
Fa
parlare tre persone, Salviati, Sagredo, partigiani di Copernico,
e Simplicio, difensore delle vecchie dottrine di Tolomeo.
Questo Simplicio è l’uomo del passato, è l’immagine dell’immobilità
volontaria. Galileo fa di lui un essere ridicolo ed infelice.
“ – Studiamo la natura, - gli dice Salviati.
“
– A che potrebbe servire l’affaticarsi per ciò? Che cosa
posso farne della natura? Io mi tengo a quello che dissero
i nostri antichi, studio i dotti, ripeto le loro parole
e dormo tranquillo”.
E
in un altro punto Galileo fa dire a Simplicio: “ – Basta
essere buon cristiano. Una santa ignoranza tien luogo di
tutto. Non è da desiderarsi di sollevare tutti i veli”.
I
Dialoghi di Galileo scintillano di tratti fini, di
allusioni satiriche e di profonde idee scientifiche. Questo
bel libro non è soltanto un ammirabile trattato di astronomia,
ed un esempio di logica serrata e di bello scrivere, è un’arringa
energica in difesa del libero esame dei fatti, un’opera
degna di Socrate, che sarà sempre ammirata da chi apprezza
l’indipendenza del giudizio e lo svolgimento delle idee.
E’ una vittoria riportata dalla ragione sui nemici della
umana coscienza.
Urbano
VIII credette di riconoscere sé stesso in Simplicio, in
quel tipo immaginato da Galileo a personificare i suoi avversari,
personaggio ignorante e ridicolo, sempre attaccato al culto
di ciò che è per maledire e combattere ciò che deve essere.
Il
papa, irritato contro lo scienziato, l’abbandonò all’Inquisizione.
Benché vecchio ed infermo, Galileo dovette recarsi a Roma,
dove principiò contro di lui un processo che rimase famoso
nella storia. Fu dapprima arrestato, per ordine del Santo
Uffizio, presso l’ambasciata di Toscana.
Qualche
giorno dopo, come egli stesso racconta in una sua lettera
indirizzata a Renieri, venne a visitarlo il padre commissario
Lancio e lo condusse seco in carrozza.
Per via gli diresse parecchie domande. A tutte le solide
ragioni ed alle prove matematiche allegate dall’illustre
astronomo, il commissario altro non rispose che la frase
della Sacra Scrittura: Terra autem in aeternum stabit,
quia terra autem in aeternum stat. Giunto al palazzo
del Santo Uffizio, Galileo fu presentato dal Commissario
monsignore Vitrici assessore, accompagnato da due frati
domenicani; là gli venne intimato civilmente l’ordine di
produrre le sue ragioni in pieno congresso, avvertendolo
che se per caso venisse giudicato colpevole gli sarebbe
concessa la facoltà di far valere le sue ragioni. Dopo un
lungo esame Galileo fu detenuto per una ventina di giorni.
Il 20 giugno 1632 fu nuovamente inviato al Sant’Uffizio,
ed il 22 seguente lo si condusse al convento della Minerva
davanti ai cardinali ed ai prelati della congregazione per
leggergli la sentenza. Questa sentenza portava la proibizione
del suo libro, e la sua condanna alla prigione del Santo
Uffizio per un tempo limitato dal beneplacito di sua Santità.
Dovette inoltre pronunciare inginocchiato la seguente abiura:
“
Io Galileo Galilei, in età di settant’anni, inginocchiato
in presenza delle Vostre Eminenze, avendo davanti gli occhi
e toccando colle proprie mani i santi Evangeli, essendo
giudicato sospetto d’eresia per aver sostenuto e creduto
che il sole fosse il centro dell’universo ed immobile, e
che la terra non fosse il centro e si movesse, abiuro, maledico,
detesto i suddetti errori”.
Si
dice che Galileo alzandosi abbia battuto il piede sul pavimento
e pronunciata quella frase famosa: E pur si muove!
Non è probabile che abbia osato provocare così i suoi giudici;
ma se quelle parole non vennero pronunciate dalle sue labbra,
certo erano impresse nella sua anima. Molti biografi hanno
sostenuto che il rigoroso esame del Sant’Uffizio altro non
fosse che la tortura. Le torture morali furono le sole che
dilaniarono il grande filosofo.
Galileo
non doveva più godere la libertà. Il papa gli consentì di
andare a Siena presso l’arcivescovo Piccolomini, poi alla
villa d’Arcetri nelle vicinanze di Firenze. L’illustre vecchio
ebbe a sopportare molte avversità; nell’aprile del 1634
perdette una delle sue figliuole che amava teneramente,
e due anni dopo diventò cieco. Talvolta, col bastone in
mano, sostenuto dall’altra sua figlia fattasi monaca, cercava
la via nel giardino d’Arcetri tra gli alberi, che egli aveva
un giorno piantato. Quindi se ne tornava alla sua dimora,
dove l’attendevano nuove persecuzioni da parte dei suoi
nemici. Si ponevano ogni giorno intoppi alla pubblicazione
delle sue opere, si mettevano ostacoli alle sue relazioni,
e l’inquisitore aveva l’incarico di andare di tanto in tanto
ad accertarsi che Galileo era umile e melanconico.
E il povero vecchio divenne realmente tale quando vide dileguarsi
ad una ad una le sue speranze; ed affranto, sconfortato,
cessò di vivere l’8 gennaio 1642. Aveva settant’otto anni.
In
una sua lettera, Cartesio narra in tutti i suoi particolari
la condanna di Galileo, e ne fu tanto impressionato che
dimise allora il pensiero di far stampare il Trattato
del Mondo. Egli racconta come gli esemplari dei Dialoghi
fossero stati bruciati, come l’autore venisse condannato,
e conclude: “ Chi avrebbe mai potuto supporre che un
uomo potesse chiamarsi colpevole per aver voluto precisare
il movimento della terra?”.
Bibliografia
U.
Forti, Storia della scienza nei suoi rapporti con la
Filosofia, le Religioni, la società, Dall'Oglio Editore,
1969
Joseph
Bertrand, Les fondateurs de l'astronomie moderne
Copernic-Thyco Brahe-Kepler-Galilee-Newton, Vigdor,
1999
Jean-Pierre
Verdet, Storia dell'astronomia, Longanesi & C.,
Milano, 1995
Pio
Passalacqua
Gruppo Astrofili
Palermo
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